Quando i veri “Marsi”, non si chiamavano Marsi ma altro….

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Questo scritto è giustificato dalla mancanza di un lavoro di sintesi che affrontasse, in una visione unitaria, un vasto e complesso materiale, oggetto nell’arco dell’ultimo secolo, anche di indagini minute e attente da parte degli specialisti, ma proprio per questo disperso in mille rivoli, spesso di difficile accesso e comprensione per i non «addetti ai lavori», ed io sono uno di questi.

Rispetto ad una cinquantina di anni fa la situazione si è in un certo senso aggravata: allora, «il linguaggio stesso degli studi, benché più paludato, era più accessibile anche al lettore non strettamente specializzato, purché sufficientemente erudito … Oggi, quando l’elite accademica, di una ristretta classe dominante sta perdendo la propria giustificazione storica… nel campo degli studi, sembra accentuarsi ancor più l’ermetismo e il distacco dalla ‘gente comune’, vale a dire dalla totalità dei non specializzati.

Pertanto questo lavoro pur essendo ben lungi dall’essere completo nelle sue singole parti, ha l’ambizione di comprendere diverse esigenze, che senza disgustare gli specialisti, possano almeno in parte soddisfare chi, a qualsiasi livello, si senta nella mente e nel sangue parte integrante di questa terra e di questo suolo.
È il mondo dei nostri Avi, quello che in queste pagine ho voluto rievocare, perciò limiterò il mio esame ad alcuni aspetti o figure essenziali della sacralità della prima Italia: la prima figura non a caso è il Marte Italico.

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Occorre inizialmente capire e ricercare il significato di Marte per riuscire a sapere se i Marsi erano chiamati così  per questa divinità. Per cominciare a capire, mi limiterò a citare uno per tutti lo studio di Renato Del Ponte nei Brani tratti dal libro Dei e miti italici (Edizioni Ecig).
E’ stato opportunamente sottolineato che probabilmente «non è il culto di Giove la manifestazione più antica presso gli Italici». Le tradizioni connesse al ver sacrum, che, abbiamo visto, rimandano alla più alta “preistoria politica d’Italia”, si ricongiungono tutte, infatti, alla figura di Marte, Dio della Guerra e in origine rappresentato semplicemente come un’Asta Militare, il curix, e nel contempo Protettore (armato … ) delle Pacifiche attività Agricole e pastorali.

Così, come Difensore Armato, poteva essere invocato dai Guerrieri prima della Battaglia e dai Contadini prima della lustrazione dei campi, con offerta di frutta e sacrifici di messi, fare da Patrono ai bellicosi Salii ed ai pacifici Fratres Arvali.
Il Preller è dell’avviso che il ver sacrum appare «nei tempi più antichi tradizionalmente proprio solo nel Culto di Marte ( … ) che, accanto a Giove, era il vero Dio principale e capostipite della popolazione italica».

Ora, se in seguito ad un ver sacrum il popolo originato dalla migrazione della juventus (giovani), porta nel proprio nome quello di uno degli animali sacri a Marte, come il Picchio, il Toro, il Lupo, oppure si dice che uno di loro era alla loro testa al momento dell’esodo, si può concludere senz’altro che le primavere sacre venivano dedicate a Marte;  ed era proprio con il suo mese, Martius, che la primavera, rinnovellatrice della natura, e lo stesso Anno, avevano inizio a Roma e presso i più antichi Indiani.

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Del resto, quello che gli era consacrato doveva essere soltanto «quod natum esset inter Kalendas Martias et pridie Kalendas Maias», cioè compreso fra il 1° marzo ed il 30 aprile. Ecco dunque generarsi dalla terra dei Sabini, come frutto della più antica ondata di queste migrazioni, quei Picentes «voto vere sacro» che, provenendo dalla conca di Norcia, sono discesi nella valle del Tronto, di là diffondendosi. In Ascoli hanno avuto la loro capitale, in Cupra il santuario famoso di una loro Dea. «Picena regi  o, in qua est Ausculum, dicta quod Sabini, cum Ausculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat», afferma Festo; questo picchio che si è posato sulla loro insegna militare e li ha, per così dire, «adottati», «ha mostrato loro il cammino… ed è sacro a Marte», aggiunge espressamente Strabone.

( Bhe, qui dico io che Strabone aveva tutto l’interesse a consacrare il picchio a Marte, visto che esso, Marte, era una divinità adottata proprio dai Romani come dio della guerra).

Alcuni dicono che i Marsi, discesi nella valle del Salto, «hanno un nome,di origine sacra, assunto nell’occasione della primavera sacra che li staccava dal tronco sabino». La loro diretta connessione al Dio li avvicina a quei Mametlini campani che, consacrati in un ver sacrum nel Sannio e votati a Mamers – il Marte osco – fonderanno in Sicilia l’ultimo degli Stati italici indipendenti (289-264 a.C.): quella Messina che secondo un rito antichissimo si consacrò a Mamerte e si chiamò TOUTO MAMERTINO (o “popolo di Marte”).

“ Ed ancora si vede come il Dio Marte Guerriero, sia nato, o in ogni caso utilizzato soprattutto nel periodo romano nella romanizzazione dei territori conquistati. Infatti il nome dei Marsi appare chiaramente in questi territori solo dall’inizio del periodo romanizzante”.

Dal lago di Cotilia – che Dionisio ci ha riferito essere «sacro alla Vittoria» – il centro di migrazione si sposta al Fucino e dal Fucino al Sangro. Di qui comincia il territorio dei Sanniti, il cui nome il Devoto considera derivato dalla stessa radice “*sabh-” presente nel lat. Sabini, designante il vero nome nazionale degli Italici.

I Sabini, afflitti dagli attacchi degli Umbri, consacrarono a Marte i figli nati in quella primavera e questi, raggiunta l’età adulta, partirono verso il sud in numero di circa settemila condotti da un Toro selvatico mandato dal Dio, avendo alla testa un certo Cominius Castrvnius. Giunti nel paese dei protolatini Opici, immolarono il Toro a Marte e vi si stanziarono, fondando sul luogo Bovianum, l’antica capitale Sannita, che reca nel nome il ricordo dell’animale divino.

Questa teoria appare piuttosto discordante con la probabile realtà storica del periodo, ossia che  i Sabini afflitti dai conflitti con gli Umbri consacrarono i  loro figli a Marte. Appare appunto difficile da credere che delle tribù che soffrivano l’attacco degli Umbri possano man mano conquistare dei territori che comprendono tutta la penisola del centro sud. Infatti in numerosi territori c’erano popolazioni autoctone che sicuramente non avranno consentito un facile insediamento di nuove tribù.
Tale scena probabilmente appare in una rozza moneta sannita, che nel rovescio mostra un giovane guerriero stante su una lancia tra un albero (o trofeo) e un Toro giacente: personificazione forse di Cominius Castronius che, allo sdraiarsi del Toro Marzio, prende possesso del suolo a nome della juventus sabina.

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Sono numerosi gli studi che affermano, la totale estraneità delle statuette di dei guerrieri ritrovate nei periodi antecedenti al 3 – 4 secolo a.c. Infatti, tale disquisizione sembra abbastanza veritiera tenendo presente che Marte acquista solo dopo la crescita di Roma un ruolo prevalente presso le tribù italiche. Probabilmente era un altro dio e non Marte.

Il costume del ver sacrum non solo non s’interrompe, ma si intensifica: dal tronco principale dei Sanniti si forma il ramo meridionale degli Irpini o «lupi» che, guidati da un lupo sacro (hirpus), andranno ad abitare il bacino del Calore, tra le falde orientali del Taburno e i monti che si stendono sino alle pianure pugliesi: Irpini appellati nomine ‘lupi’, quem irpum dicunt Samnites eum enim ducem secuti agros accupavere. Il Lupo è notoriamente un altro animale consacrato a Marte e sarebbe stato alla testa di un ulteriore ver sacrum sannita, donde nacque la federazione dei bellicosi Lucani, estesa dalle sorgenti del Sele e del Bradano sino al territorio degli Enotri. Il collegamento col greco Lykos («lupo») pare infatti suffragato dalla monetazione lucana, raffigurante appunto una testa di Lupo.

Teniamo sempre presente che quello che leggiamo e sempre quello tramandato dai romani molto successivamente alle primavere sacre.

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PICUS E L’ ARTE AUGURALE ITALICA

Romolo e Remo, figli di Marte, dopo essere stati abbandonati alla sorte nella loro culla, “ripescati” dagli arbusti del ficus ruminalis, non furono nutriti solo dalla lupa: anche un picchio miracolosamente inviato, picus Martius, provvide a portar loro giornalmente del cibo, così che i piccini -futuri – fondatori, poterono sfuggire alla morte e nutrirsi a sazietà.

E qui appare in tutta la sua invenzione, il Marte Guerriero come appunto fondatore di Roma attraverso la sua stirpe.

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Nella elaborazione mitologica romana (non v’è dubbio, infatti, che qui ci troviamo di fronte ad un nucleo mitico autentico e indigeno), l’ italico picchio di Marte, abitatore delle selve più fitte, fu identificato con Picus, dio oracolare primevo e fatidico degli Aborigeni, protettore della stirpe laurentina, figlio di Saturno e padre di Fauno, quindi avo di re Latino.

Circe sua moglie o amante respinta, lo avrebbe trasformato nell’ uccello dal suo nome. Sotto la forma di rex augur, figura non inedita nell’ ambito dell’ antica regalità italica, se se ne sono potute ravvisare tracce presso Latini, Siculi ed Umbri, lo descrive Virgilio nella sua ricchissima reggia, facendolo ornato di trabea, ancile e del lituo, o verga sacerdotale augurale.

Ora, il picchio e l’ arte augurale sabina sembrano collegare Roma e gli Italici nella figura di Tito Tazio, eponimo della romana tribù dei Tities, compagno di Romolo nel regno dopo la guerra per il mitico “ratto delle sabine”, che aveva visto le schiere di Tito Tazio, mossosi da Curi, occupare il Quirinale ed il Campidoglio: probabile reminiscenza, anche questa, di una “primavera sacra”. Dopo la fusione con i Ramnes, Roma divenne la città dei Quiriti, cioè degli “astati”, e Romolo fu detto Quirino.

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Forse non a caso, il “secondo fondatore di Roma”,  inauguratore della nuova età mistico-storica, fu il sabino Numa Pompilio, genero di Tazio e secondo re dell’ Urbe, istitutore del pontificato massimo e dei principali collegi sacerdotali romani. Ma un probabile riflesso storico di nuove “primavere sacre” sabine, avanguardia “degli Italici Umbri che si sovrappongono a quei più antichi Sabini di tipo osco o ‘proto-Sabini’ connessi con la fondazione di Roma”, si ha nella testimonianza liviana della calata nell’Urbe da Regillo di Atto Clauso, capostipite della gens Claudia, e dei suoi cinquemila familiari e clienti, nonché della successiva temporanea occupazione del Campidoglio (460 a.C.) da parte di Appio Erdonio con duemilacinquecento uomini.

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Detto questo e saputo che Ares non era una divinità benefica e benvoluta nemmeno tra gli dèi dell’Olimpo. Malvisto da Atena, lo stesso Zeus, suo padre, nel V Libro dell’Iliade gli dichiara la propria antipatia e gli dice che ha lo stesso carattere attaccabrighe di sua madre Hera.

Ecco questo Ares, a Roma, venne identificato con Marte, molto più umano e benevolo. Presso i Romani, in origine era il dio dell’agricoltura e della primavera; a lui era dedicato il primo mese dell’antico calendario romano, Martius.

Appunto la domanda sorge spontanea: Potevano i popoli fucensi chiamarsi Marsi in onore di Marte, se questi non era nemmeno onorato a dovere dagli stessi Greci?

Da quanto sopra, possiamo dire chiaramente che i Marsi, non si chiamavano così prima della romanizzazione del territorio. Ed allora come si chiamavano?

Cercheremo di scoprirlo prossimamente con ulteriori studi e ricerche..