Tratto dal lavoro di Federico Elmetti
http://www.archivioantimafia.org/libri/Marcello_Silvio_e_la_mafia.pdf
Senza mai dimenticare che:
“La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” “Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia…però la magistratura non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! Questo discorso non va! Perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza. Le Istituzioni però hanno il dovere di estromettere gli uomini politici vicini alla mafia, per essere oneste e apparire tali”. “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene” Paolo Borsellino, Procuratore della Repubblica Italiana.
Passiamo a riassumere alcune fasi salienti dei nostri protagonisti.
Sentenza:
L’11 dicembre 2004 il Tribunale dava lettura del dispositivo della sentenza di condanna per i due imputati. In particolare, Marcello Dell’Utri veniva giudicato colpevole dei seguenti reati: A) Delitto di cui agli artt. 110 e 416 commi 1, 4 e 5 c.p., per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:
- partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
- intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con 6 l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore;
- provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
- ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforzando così la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare – a vantaggio della associazione per delinquere – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario.
Con l’aggravante di cui all’articolo 416 comma quarto c.p., trattandosi di associazione armata. Con l’aggravante di cui all’articolo 416 comma quinto c.p., essendo il numero degli associati superiore a 10. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982. B)
Delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p., per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:
- partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche 7 di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
- intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;
- provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
- ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare – a vantaggio della associazione per delinquere – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416 bis c.p., trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi.
Marcello Dell’Utri, per la propria storia personale e per il solo fatto di essere stato in tutti questi anni l’alter ego dell’attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, rappresenta una personalità pubblica troppo importante nel panorama economico-politico italiano perché una sentenza tanto pesante e contenente fatti tanto gravi e clamorosi possa essere fatta passare sotto silenzio o, peggio, liquidata con una semplice battuta (l’avvocato della difesa Roberto Tricoli ha dichiarato che trattasi di “un complotto di pentiti”). Sarebbe offensivo nei confronti della Corte giudicante e disonesto nei confronti di chi, credendo nella giustizia, abbia voglia di informarsi e sapere come veramente si sono svolti i fatti.
Come esiste, sancita dalla Costituzione, l’obbligatorietà dell’azione penale (almeno per ora), così dovrebbe esistere la “obbligatorietà dell’informazione”, ovvero il dovere, da parte di ogni cittadino, di informarsi e il diritto dello stesso ad essere informato. La libertà non è qualcosa di astratto. E’ qualcosa che si deve costruire e difendere. Il primo passo per costruire e difendere la propria libertà è informarsi. Con serietà e onestà intellettuale. Colui che rinuncia ad informarsi o, peggio, delega ad altri la possibilità di essere informato (vedi, per esempio, giornali e televisioni più o meno di parte), diviene d’un colpo burattino controllabile e ricattabile. Cessa cioè di essere libero.
Arriviamo direttamente al capitolo 21:
Il partito della mafia Alle elezioni politiche del 1987.
Totò Riina decide che Cosa Nostra sosterrà per la prima volta il Partito Socialista Italiano (PSI), allora guidato dal leader storico Bettino Craxi. E’ una svolta epocale: la mafia aveva sempre utilizzato la Democrazia Cristiana (DC) come proprio cavallo di battaglia per inserirsi all’interno degli ingranaggi della politica. E’ un chiaro ed evidente segnale. Riina vuole a tutti i costi fare il colpo grosso ed agganciare Craxi, uno degli esponenti più potenti e carismatici del panorama politico italiano. Per questo ha tanto a cuore il rapporto esclusivo, instaurato a suon di bombe, con Berlusconi, noto amico del leader socialista. D’altra parte, non esiste prova del fatto che il piano di Riina abbia avuto successo, né che il famoso “aggancio” sia effettivamente avvenuto. E soprattutto non c’è prova del fatto che Berlusconi abbia collaborato ad un tale avvicinamento politico tra Cosa Nostra e il PSI. Certo è che Berlusconi era visto, in questo senso, come un canale privilegiato da sfruttare in qualunque modo. Privilegiato ma, probabilmente, non sufficiente. Il Consiglio osserva: “L’assenza di prova in ordine alla realizzazione di trattative, accordi, favori politici fatti, o semplicemente richiesti, da Cosa Nostra a Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri, permane, 108 ad avviso del Tribunale, fino al 1993, epoca in cui l’imprenditore milanese aveva deciso di lanciarsi in prima persona in politica, portando con sé, quale primo paladino di tale importante scelta, l’imputato Marcello Dell’Utri, un uomo che da circa venti anni aveva ripetutamente intessuto, con piena consapevolezza, rapporti di vario genere con soggetti mafiosi o paramafiosi”. La scelta di votare socialista, per altro non da tutti i mafiosi condivisa, si rivela però sbagliata. Riina non è soddisfatto e nelle elezioni successive, fino al 1992, non rinnoverà il proprio voto al PSI. In particolare, il ministro della Giustizia di allora, il braccio destro di Craxi, Claudio Martelli, aveva in un certo senso “tradito” le aspettative di Cosa Nostra portando a Roma proprio quel Giovanni Falcone che aveva assestato alla mafia un colpo mortale con le dozzine di condanne inflitte in via definitiva il 30 gennaio 1992 al termine del maxiprocesso. Fallita dunque la trattativa con lo Stato, Riina vira verso la stagione delle stragi, inaugurata con l’eccidio di Capaci, in cui perdono la vita proprio il giudice Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta. E’ una prova fin troppo evidente che qualcosa, nella trattativa tra mafia e stato, è andato storto. L’anno dopo, in piena bufera Tangentopoli che spazza via tutti i vecchi partiti, Cosa Nostra inizia a maturare l’idea di costituire una nuova forza politica autonoma, tutta siciliana e tutta mafiosa. A far luce su quei momenti febbrili ci sono le dichiarazioni di Tullio Cannella, arrestato il 5 luglio 1995, accusato di aver coperto la latitanza del boss Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina. In particolare dalla metà di giugno del 1993 fino ai primi di settembre, l’aveva ospitato nel villaggio Euromare, un residence balneare che lui stesso aveva costruito nei pressi di Buonfornello, in provincia di Palermo. In quell’occasione, Bagarella, conoscendo l’esperienza politica acquisita da Cannella negli anni, inizia a prospettargli l’idea di costituire un partito che “esalti i valori della sicilianità”. Detto fatto. Nell’ottobre successivo viene costituita Sicilia Libera, il partito ideato ad uso e consumo della mafia. Se ne sarebbe dovuto occupare lo stesso Cannella. Finanziamento iniziale stanziato dal boss: 10 milioni di lire. Una cifra irrisoria per un progetto indipendentista tanto 109 ambizioso. Cannella, dopo poco tempo, non sa più come portare avanti il discorso: è disperato e a corto di soldi. Ma Bagarella lo tranquillizza. Cosa Nostra ha già cambiato idea. “Ci stiamo orientando verso un’altra direzione che è più concreta, che è di più facile realizzazione, mentre un progetto indipendentista passa per anni ed anni di lavoro, noi abbiamo degli agganci”. Di che agganci parla Bagarella? Cannella lo rivela senza mezzi termini: “Si stavano appoggiando, lo dico con onestà, con Forza Italia, quindi loro avevano dei vari candidati, amici di alcuni esponenti di Cosa Nostra e ciascun candidato con questi loro referenti aveva realizzato una sorta di patto elettorale, una sorta di impegno e quindi votavano per questi, tant’è vero che anche Calvaruso mi disse: ma sai, Giovanni Brusca mi porta in questi posti, riunioni, escono tutto il giorno volantini a tappeto di Forza Italia”. Siamo attorno al gennaio 1994, un mese e mezzo prima delle elezioni. Cannella viene lasciato a se stesso con il suo partito Sicilia Libera. Senza l’appoggio di Cosa Nostra, sa che tutto il progetto è destinato a naufragare. Ma Cannella ha già speso la sua parola con molte persone e non può mollare sul più bello. Tenta dunque di capire se ci sia la possibilità di inserire alcuni dei suoi uomini nelle liste di Forza Italia, il partito appoggiato dalla mafia. Bagarella lo rassicura: “Bagarella mi disse che avrebbe parlato con una persona che sarebbe stato in grado di ordinare, allora si sapeva, noi sapevamo che l’onorevole Gianfranco Miccichè si occupava della formazione delle liste di Forza Italia qui in Sicilia. Allora disse: io ho la persona che è in grado di dire a questo Miccichè quello che deve fare. Io me ne andai, aspettai qualche giorno, non ricordo se venne Calvaruso o Nino Mangano a dirmi che di lì a breve mi dovevo ritenere rintracciabile in ufficio perché era questione di un giorno, massimo 48 ore che avrebbero portato da farmi incontrare un certo Vittorio Mangano”. Ancora lui: Vittorio Mangano. In realtà l’incontro non avverrà mai: Cannella dovrà togliersi dalla testa di riuscire ad inserire i suoi uomini nelle liste elettorali di Forza Italia. 110 Un altro collaborante, Antonio Calvaruso, spiega come mai salti fuori a questo punto, di nuovo, la figura di Mangano: “Bagarella diceva che il Vittorio Mangano serviva. Serviva sia territorialmente, sia politicamente. In effetti parlò pure con il Cannella Tullio e di fargli dare l’appoggio da Vittorio Mangano, perché sembra, Vittorio Mangano è una persona, a quanto pare, infarinata nella politica essendo stato stalliere di Berlusconi. Il Bagarella diceva che era la persona che poteva aiutare al partito diciamo di Sicilia Libera e, quindi, Cannella Tullio”. In effetti, Vittorio Mangano, dopo essere uscito dal carcere, è tornato a pieno regime a lavorare per Cosa Nostra. Intrattiene contatti stretti sia con Bagarella che con Giovanni Brusca. Dopo l’arresto di Cancemi, suo caro amico, sale di grado e diventa referente per la zona di Palermo-Centro. Bagarella però non si fida di lui. Già una volta l’ha graziato risparmiandogli la vita. Ora lo tiene in pugno perché “serve”, non solo “territorialmente”, ma anche “politicamente”. Soprattutto adesso che il progetto Sicilia Libera è solo un lontano ricordo e Cosa Nostra ha deciso di buttarsi anima e corpo nel progetto Forza Italia.
CAPITOLO 22
Silvio scende in campo.
Nel gennaio 1994 Silvio Berlusconi rompe gli indugi e scende in campo fondando il partito Forza Italia. L’accusa ritiene che “Marcello Dell’Utri sarebbe stato favorevole alla discesa di Silvio Berlusconi nell’agone politico perché avrebbe potuto curare gli interessi degli esponenti di Cosa Nostra i quali, nel frattempo, avevano perso i loro necessari referenti politici a causa dei cambiamenti epocali che erano avvenuti in quel periodo. In tal modo, si sarebbe verificata una compromissione con la mafia su larga scala”. In realtà, fa notare il Consiglio, “le motivazioni che possono avere indotto l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri a fondare un nuovo partito sono state molteplici e trovano ampia giustificazione su altri piani”. Quali? Innanzitutto, “sia sul fronte giudiziario, con le vicende legate all’inchiesta giudiziaria milanese, giornalisticamente nota come “Mani Pulite”, a partire dal 17 febbraio del 1992 (data del famoso arresto del socialista Mario Chiesa, il primo di una lunga serie), sia sul fronte politico, con la fine del “cromatismo”, della Democrazia Cristiana e l’avanzamento della sinistra, si erano verificati 112 avvenimenti assai preoccupanti per il futuro della Fininvest”. La sopravvivenza della Fininvest infatti era chiaramente “condizionata da provvedimenti e scelte di natura politica e legislativa”. Si pensi al decreto con cui l’allora capo del governo Bettino Craxi aveva rinnovato le concessioni governative necessarie per l’attività televisiva del gruppo. Morto (politicamente) Craxi, Berlusconi e la Fininvest rimangono soli, soprattutto di fronte a quelli che Berlusconi ritiene “attacchi persecutori” da parte dei giudici di Milano. Non solo. L’esito del referendum Segni sulla riforma del sistema elettorale del 18 aprile 1993 aveva reso tecnicamente possibile la creazione di uno schieramento di destra che si opponesse ad una sinistra sempre più in posizione di forza. Già il 4 giugno 1993 Berlusconi avrebbe confidato ad Indro Montanelli la sua intenzione di “scendere in politica per ricomporre l’area moderata”. Vi erano dunque tutti i presupposti perché nascesse un partito dalla forte ideologia garantista che “non poteva non essere apprezzata da qualunque soggetto che, in quel periodo storico, si fosse trovato ad avere a che fare con la giustizia, a qualsivoglia titolo”. Compresa Cosa Nostra, ovviamente, uscita dal maxiprocesso con le ossa rotte. Nell’estate del 1993 si lavora dunque all’idea di fondare un nuovo partito. Il principale sostenitore della discesa in campo di Berlusconi è proprio Marcello Dell’Utri, che la ritiene “assolutamente necessaria”. Confalonieri e Letta si dicono invece contrari.
Dopo un periodo di incertezza, Berlusconi decide di dare fiducia a Dell’Utri e gli affida ufficialmente l’incarico di creare Forza Italia. D’altra parte, sappiamo che, proprio in quei mesi, Cosa Nostra è alla ricerca di possibili nuovi sbocchi politici e, non trovando agganci, con Totò Riina appena arrestato e messo in carcere (15 gennaio 1993), sparge bombe per l’Italia meditando nel frattempo di costituire un partito paramafioso autonomista dal nome Sicilia Libera. Ora che Riina è stato tolto dalla scena, è Bernardo Provenzano il nuovo boss dei boss. Inizialmente egli non osteggia il progetto autonomista di Leoluca Bagarella, ma successivamente, alla fine del 1993, esce allo scoperto e si fa sostenitore in prima persona 113 dell’appoggio a Forza Italia. Perché Provenzano cambia idea così repentinamente? Semplice. “Gli sarebbero arrivate garanzie in tal senso”. Da chi? Ovvio, secondo il Consiglio, pensare a Dell’Utri, ma anche a “qualunque altro valido referente”. Ma come sono andati veramente i fatti? Illuminanti a tal proposito sono le dichiarazione del superpentito Antonino Giuffrè. Giuffrè è entrato a far parte della famiglia mafiosa di Caccamo nel 1980. Ha intessuto rapporti stretti con esponenti di Cosa Nostra di altissimo rango quali Michele Greco e lo stesso Bernardo Provenzano. Di Michele Greco, detto “Il Papa”, ha pure seguito passo passo la latitanza. E sempre lui ha curato i rapporti non sempre idilliaci tra Riina e Provenzano. Dal 1987 fino al 1992 verrà nominato da Riina reggente del mandamento di Caccamo ed entrerà a far parte della commissione provinciale di Cosa Nostra. Dopo l’arresto di Riina, Giuffrè diventerà il referente primario di Bernardo Provenzano fino al 16 aprile 2002, data del suo arresto. Dopo due mesi di carcere, Giuffrè decide di collaborare con la Procura della Repubblica di Palermo. L’attendibilità delle sue dichiarazioni, secondo il Consiglio, è fuori di dubbio. “Il quadro d’insieme delineato dal Giuffrè sul tema della politica è stato pienamente riscontrato dalle altre acquisizioni dibattimentali”. Dalle parole di Giuffrè si apprende che, effettivamente, nel 1987 si era registrato un cambio di rotta all’interno di Cosa Nostra in favore del PSI e ai danni della DC. Riina aveva perso fiducia in quelli che considerava i “referenti tradizionali”, ovvero alcuni uomini politici appartenenti alla Democrazia Cristiana, che avevano tradito le aspettative della cupola mafiosa. In particolare Riina non aveva tollerato il fatto che le sentenze del maxiprocesso non fossero state adeguatamente “aggiustate”. Il primo a farne le spese era stato, come noto, Salvo Lima, esponente di spicco della corrente andreottiana in Sicilia. L’avrebbe seguito, poco dopo, Ignazio Salvo, uno dei potenti esattori di Palermo. Entrambi giustiziati da Cosa Nostra per non essere stati in grado di tutelarne a dovere gli interessi. 114 Anche il PSI però non soddisfa le attese. Martelli assumere il giudice Giovanni Falcone come Direttore degli Affari Generali Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Una mossa che non verrà perdonata. Falcone salterà in aria insieme alla moglie e alla scorta il 23 maggio 1992. Cinquantaquattro giorni dopo, il 19 luglio, farà la sua stessa fine il giudice Paolo Borsellino, reo di essersi messo di traverso nella scellerata trattativa in corso tra mafia e Stato. In quel periodo, Antonino Giuffrè viene tratto in carcere e vi rimarrà per qualche mese fino al gennaio successivo, quando sarà Riina ad essere arrestato (o forse venduto da Provenzano). Quel che è certo è che Provenzano è molto interessato, in quei giorni, ad “apprendere l’evoluzione delle cose politiche”. In particolare, Provenzano riferisce a Giuffrè che si erano create, all’interno di Cosa Nostra, due fazioni contrapposte. La prima, di carattere “pacifista”, annoverava, oltre agli stessi Giuffrè e Provenzano, mafiosi del calibro di Benedetto Spera, Pietro Aglieri, Carlo Greco e Raffaele Ganci. La seconda, di indirizzo decisamente stragista, faceva capo a Leoluca Bagarella e aggregava importantissimi uomini d’onore (nostalgici di Riina), quali Giovanni Brusca, Salvatore Biondino, i fratelli Graviano e i Farinella. Anche politicamente, le due fazioni sono avverse. Provenzano vuole agganciarsi ad un partito già esistente come Forza Italia. Bagarella ne vorrebbe costituire uno autonomo. Giuffrè lo spiega chiaramente: “Noi abbiamo avuto da sempre l’astuzia di metterci sempre con il vincitore, questa è stata la nostra furbizia. Quando ce ne andiamo a metterci con i socialisti già si vede che il discorso non regge. Stesso discorso con Forza Italia. Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi. Il popolo era stufo della Democrazia Cristiana, il popolo era stufo degli uomini politici, unni putieva cchiù, e non ne può più. Allora ha visto in Forza Italia un’ancora a cui afferrarsi e lei con chi parlava parlava e io lo vedevo, le persone tutte, come nuovo, come qualche cosa, come ancora di salvezza. E noi, furbi, abbiamo cercato di prendere al balzo la palla, è giusto? Tutti Forza Italia. E siamo qua”. 115 CAPITOLO 23 La mafia vota Forza Italia Che Berlusconi avesse deciso di scendere in campo era già noto a Cosa Nostra nell’autunno del ’93, ovvero alcuni mesi prima che Forza Italia venisse costituita ufficialmente il 18 gennaio 1994. Racconta Antonino Giuffrè: “Verso la fine del 1993, già si aveva dei sentori che si muoveva qualcosa di importante nella politica nazionale. Cioè si cominciava a parlare della discesa in campo di un personaggio molto importante. Si faceva il nome di Berlusconi. Queste notizie venivano portate all’interno di Cosa Nostra e per un periodo è stato motivo di incontri, di dibattiti all’interno di Cosa Nostra, di valutazioni molto, ma molto attente. Inizia, appositamente un lungo periodo di discussione, nello stesso tempo oltre che di discussione, di indagine, per vedere se era in modo particolare un discorso serio che poteva interessare a Cosa Nostra e in modo particolare, per potere curare quei mali che da diverso periodo avevano afflitto Cosa Nostra, che erano stati causa di notevoli danni”. Dopo la cattura di Riina, Cosa Nostra è in difficoltà, sente la mano pesante dello stato che la sta soffocando e ha disperato bisogno di stringere alleanze, trovare agganci, inserire i propri uomini nei palazzi dove si prendono le decisioni importanti. Bernardo Provenzano in questo si dimostra abilissimo. Molto più sottile e 116 intelligente di Riina, capisce fin da subito che la linea stragista non avrebbe portato da nessuna parte e che alla lunga, anzi, si sarebbe ritorta contro quel sistema mafioso che lui stesso ora controllava incontrastato. Il muro contro muro con lo Stato è una tattica suicida. Provenzano lo sa bene. Per questo, dopo aver vagliato accuratamente tutte le ipotesi, decide di uscire allo scoperto: “Provenzano stesso ci ha detto che eravamo in buone mani, che ci potevamo fidare. Diciamo che per la prima volta il Provenzano esce allo scoperto, assumendosi in prima persona delle responsabilità ben precise e nel momento in cui lui ci dà queste informazioni e queste sicurezze ci mettiamo in cammino, per portare avanti, all’interno di Cosa Nostra e poi, successivamente, estrinsecarlo all’esterno, il discorso di Forza Italia”. Ma come mai proprio Forza Italia? Perché Provenzano decide di scommettere proprio su Silvio Berlusconi alla sua prima esperienza politica? Giuffrè ne è sicuro: Provenzano aveva ricevuto sicuramente delle “garanzie” che facevano ben sperare per il futuro. Ma da chi? E’ ovvio che solo importanti esponenti legati strettamente a Silvio Berlusconi e ben addentro nelle cose di mafia potevano essere in grado di promettere garanzie al boss dei boss per conto di Forza Italia. Il cerchio dunque si restringe, e di molto. Giuffrè dichiara di aver saputo dai capimafia Giovanni Brusca e Carlo Greco che tali intermediari sarebbero stati il costruttore Giovanni Ienna, Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, uno dei “personaggi più dinamici e interessati a portare avanti questo discorso, cioè nella creazione di un nuovo partito” e reputato da Cosa Nostra “persona seria e affidabile”. Vittorio Mangano, dopo un lungo periodo passato in carcere (circa 10 anni, dal 1980 al 1990), riprende immediatamente in mano le fila del discorso interrotto molti anni prima. Si fa strada all’interno dalla famiglia mafiosa di PalermoCentro-Porta Nuova fino a diventarne reggente quando Salvatore Cancemi, il 22 luglio del 1993, si consegnerà spontaneamente ai Carabinieri. E’ il coronamento di una lunga e gloriosa carriera criminale. Il collaboratore di giustizia Francesco La Marca parla di un episodio, agghiacciante per la sua gravità. Racconta che Vittorio Mangano, nei 117 primi mesi del 1994, prima delle elezioni gli aveva detto che, su esplicito ordine di Bagarella e Brusca, avrebbe dovuto recarsi per un paio di giorni a Milano “per parlare con certi politici”. Dopo il viaggio, i due si incontrano di nuovo e Mangano canta vittoria: “Tutto a posto, dice. Dobbiamo votare Forza Italia, così danno qualche possibilità di fatto del 41 bis, i sequestri dei beni e per dedicare a noi collaboratori, per ammorbidire la legge”. Eccola qui la famosa garanzia: la promessa di alleggerire il carcere duro per i mafiosi, sancito dal 41bis. Era una delle principali richieste contenute nel famoso “papello” che Riina fece pervenire agli esponenti delle Istituzioni per tramite di Vito Ciancimino. Con chi si è incontrato Mangano a Milano? La Marca non si sbilancia: Mangano non ha voluto parlarne. Un altro pentito però, Salvatore Cucuzza, va oltre e afferma che Vittorio Mangano veniva tenuto a capo della famiglia di Porta Nuova semplicemente poiché era in grado di garantire rapporti con Dell’Utri e quindi, per riflesso, con Silvio Berlusconi. Anzi, Cucuzza riferisce di aver saputo dallo stesso Mangano che questi si era incontrato “un paio di volte con Dell’Utri” alla fine del ’93. Mangano, per quegli incontri, aveva addirittura affittato una stanza in uno studio di un suo amico industriale presso Como. Una volta compiuto il proprio dovere, Mangano presenterà allo stesso Cucuzza, co-reggente del mandamento, una parcella di 4 milioni di lire, a copertura delle spese d’affitto. Di cosa parlano Mangano e Dell’Utri in quegli incontri? “Dell’Utri aveva promesso che si sarebbe attivato per presentare proposte molto favorevoli per Cosa Nostra sul fronte della giustizia, ovvero modifica del 41bis e sbarramento per gli arresti relativi al 416bis”. Non solo. Dell’Utri spiega a Mangano “di stare calmi”, cioè di evitare azioni violente o clamorose, che avrebbero potuto ostacolare la riuscita dei progetti politici favorevoli a Cosa Nostra. La difesa di Dell’Utri ha tentato di sostenere la tesi secondo cui Mangano avrebbe millantato tutta questa serie di incontri e di discussioni avute con l’imputato Marcello Dell’Utri. Tesi che, secondo il Tribunale, “non sta in piedi” per tutta una seria di motivi abbastanza ovvi. Primo dei 118 quali: è assolutamente improbabile che Vittorio Mangano osasse mentire a Bagarella, di cui aveva un sacro terrore e che già una volta gli aveva risparmiato la vita. A fugare ogni dubbio, le agende sequestrate a Dell’Utri, in cui sono state ritrovate due annotazioni relative ad incontri con Vittorio Mangano il 2 e il 30 novembre 1993. “Trattasi di un dato documentale incontestabile ed altamente significativo della condotta tenuta da Marcello Dell’Utri in quel torno di tempo”. Dunque, Dell’Utri, sebbene ormai nel ’93 Mangano fosse un mafioso conclamato, continua ad avere rapporti con lui, nonostante la propria crescita di prestigio personale, anche in campo politico. Quando gli vengono mostrate le agende, Dell’Utri non può negare l’evidenza e abbozza delle giustificazioni impacciate. Dice che Mangano era solito venirlo a trovare nel suo ufficio a Milano per parlargli dei suoi problemi personali. Di quali problemi si trattasse, Dell’Utri non ha saputo spiegarlo.
CAPITOLO 24
Dell’Utri al Parlamento Europeo
Dopo la cattura di Totò Riina, l’attenzione delle forze dell’ordine si sposta sul nuovo boss dei boss, ovvero Bernardo Provenzano. La sua latitanza è ormai leggendaria: dura da più di quarant’anni. Di lui si conoscono solo un paio di foto segnaletiche dei tempi andati, quando ancora era una ragazzone dotato di una mira infallibile e di una freddezza spietata. Tutto ciò che i Carabinieri hanno in mano per tentare di acciuffarlo sono delle ricostruzioni al computer in cui il volto di Provenzano è stato invecchiato e reso possibilmente il più vicino all’originale. Nessuno sa dove si nasconda. Si sospetta che non se ne sia mai andato dalla sua terra, il luogo dove in assoluto Provenzano si sente più al sicuro, circondato e protetto da una serie interminabile di picciotti che lo aiutano negli spostamenti, contribuiscono a cancellare ogni traccia della sua latitanza e soprattutto fanno circolare tra le famiglie mafiose i suoi ordini per mezzo dei “pizzini”, fogliettini di carta scribacchiati con numeri e nomi in codice. La contabilità di u’ zu Binnu, il “ragioniere”, il boss più inafferrabile della storia. I Carabinieri dunque vanno a tentoni, cercano di seguire le piste che potrebbero portare a Provenzano, monitorano gli spostamenti dei suoi famigliari, tengono sotto osservazione gli uomini a lui più vicini, spargono cimici in ogni dove pur di captare il segnale giusto, quello che potrebbe rivelare il vero nascondiglio del boss. 120 In particolare, aveva attratto l’attenzione dei Ros un locale, adibito ad autoscuola, denominata “Primavera”, in pieno centro a Palermo in via Gaetano Daiva n.53. Il titolare dell’autoscuola era un certo Carmelo Amato. Da un po’ di tempo gli investigatori avevano notato un via vai sospetto nel retrobottega della sua autoscuola da parte di personaggi ritenuti vicini a Cosa Nostra e addirittura allo stesso Bernardo Provenzano. Uno di questi è Francesco Pastoia, già condannato per associazione mafiosa come importante esponente della famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno. Il titolare stesso dell’autoscuola, Carmelo Amato, “presentava un profilo genealogico di tutto rispetto potendo vantare numerose parentele mafiose di riguardo, ivi compresa quella con i noti fratelli Di Napoli, Pippo e Pierino, uomini d’onore di spicco della famiglia mafiosa di Malaspina, cugini della sua prima moglie defunta”. Per questo era già stato tratto in arresto con l’accusa di associazione mafiosa. Il pentito Antonino Giuffrè rivelerà che effettivamente quel luogo era utilizzato per degli incontri clandestini tra Bernardo Provenzano e ad altri soggetti mafiosi tra la fine degli anni ottanta e il 1990. Gli investigatori, a buon ragione, credono dunque di essere sulla strada giusta e intensificano i loro appostamenti. In particolare, piazzeranno delle cimici sia all’interno dell’autoscuola che sulla autovettura dello stesso Carmelo Amato, nella speranza di carpire qualche informazione che li possa indirizzare al covo di Provenzano. Si mettono dunque in ascolto. E aspettano. Il 5 maggio 1999, Carmelo Amato si trova in auto con tale Michele Lo Forte. E’ una Fiat 600 targata BA829LH. Sono le 19:59. A un certo punto della discussione, inaspettato, spunta il nome di Marcello Dell’Utri. AMATO: L’altra volta mi venne a trovare il padre, che è venuto poco fa il “picciottello”, Enzo… LO FORTE: Enzo! AMATO: Il cugino di Ciancimino. LO FORTE: Ah, sì! AMATO: E’ entrato dentro, ci siamo seduti, abbiamo parlato… 121 LO FORTE: Ah, Enzo? AMATO: “Tanti saluti, tanti saluti, lo saluta il tizio”…ma, ma purtroppo dobbiamo portare… LO FORTE: Minchia, allora lui viene a ore dalle elezioni, minchia! AMATO: …maaah, ma dobbiamo portare a Dell’Utri! LO FORTE: Minchia… ora c’è Dell’Utri! Dell’Utri… AMATO: Compare, lo dobbiamo aiutare, perché se no lo fottono! LO FORTE: E’ logico, perché non lo tocca nessuno, nemmeno qua! AMATO: Eh, compa’, se passa lui e acchiana (viene eletto, n.d.r.) alle Europee non lo tocca più nessuno! La elezioni di cui stanno confabulando sono quelle al Parlamento Europeo, che si sarebbero tenute il 13 giugno di quell’anno. Dell’Utri era candidato nel collegio Sicilia-Sardegna. Da ambienti vicini alla mafia è arrivata dunque la notizia che bisogna votare per lui. L’intento è chiaro. Se Dell’Utri verrà eletto, non potrà essere più toccato dalla giustizia e questo potrebbe voler dire un grosso aiuto a Cosa Nostra. Due giorni dopo, il 7 maggio, i due sono di nuovo in macchina a parlare. Amato confessa apertamente il motivo per cui conviene sostenere Dell’Utri: “Si sta lavorando, compa’! Ci dobbiamo dare aiuto a Dell’Utri, compa’… perché ‘sti… se no ‘sti sbirri non gli danno pace, compa’…” Il 28 maggio, alle ore 18:49, Amato si trova all’interno della sua autoscuola e parla liberamente con Giuseppe Vaglica, cognato di Francesco Pastoia. VAGLICA: Dobbiamo votare per questo allora? AMATO: E adesso ma chi lo doveva dire che io dovevo lavorare… pensare che… VAGLICA: Marcello Dell’Utri? AMATO: … VAGLICA: Ah… ma a Totò pure? AMATO: No, quello no… ho sentito dire che a Cuffaro… l’hanno chiamato a Totò Cuffaro… a Cuffaro… a questo Cuffaro chiediglielo… 122 VAGLICA: A chi interessa? AMATO: Si deve votare a lui se no lo fottono! Il 13 giugno Amato è di nuovo in auto, questa volta col cognato, Salvatore Carollo, il quale pronuncia una frase sinistra e sibillina: “I signori del Nord Italia, fino a che gli facevano gli omicidi che gli bisognavano, e quelli, diciamo, un po’ di vento si poteva campare. Quando si seppe il risultato, tutto a monte… ci mandarono a Caselli. Meno male che anzi… se lo è giocato con Dell’Utri il signor Berlusconi, perché altrimenti… Ora ci rompono i coglioni, perché lui se n’è andato perché… si è giocato il voto… il voto per… alla Camera per mezzo di… ‘stu governo di D’Alema, quando c’era la guerra nel Kossovo… Poi è capace… si è tolto da mezzo ai coglioni a… a questo che gli sta scassando la minchia a Dell’Utri, e lui l’ha cambiato!” Chi sono questi signori del Nord Italia? A chi avrebbero dovuto far comodo gli omicidi? E di quali omicidi si tratta? Caselli visto come fumo negli occhi, D’Alema un impaccio. Poi l’argomento torna sulle elezioni. AMATO: Totò, per chi devi votare tu? CAROLLO: Io? Per nessuno. AMATO: Ah? CAROLLO: Presidente? Per il Polo voto io. AMATO: Il Polo? CAROLLO: Per il Polo. AMATO: Per il Polo voti? CAROLLO: Per il Polo voto io. AMATO: E allora daglielo… daglielo a Dell’Utri il voto. CAROLLO: Per il Polo voto. AMATO: Glielo puoi dare a Dell’Utri? CAROLLO: Io siciliano sono come lo è lui… già questo era scontato! AMATO: Ma io non ce l’ho… ma, onestamente, non è che ce lo voglio dare a lui onestamente. Io glielo do perché c’è un impegno per ora, eeeh, perché lo vogliono fottere, hai capito? 123 AMATO: In ogni caso, lui salirà senz’altro…no, perché Berlusconi, buono buono… qui ci serve a lui e mette a lui… hai capito? Si scopre dunque che Amato, se fosse per lui, non voterebbe Dell’Utri, ma sotto sotto c’è un accordo, un impegno a cui non si può sottrarre. “Un impegno che non teneva conto delle possibili, diverse scelte del singolo elettore di Cosa Nostra; dunque, un impegno collettivo di natura elettorale in favore dell’imputato, cui si doveva aderire”. Lo conferma perfino il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro in una conversazione intercettata il 4 aprile 2001, in cui si lamenta del fatto che Dell’Utri non avrebbe poi rispettato i patti, nemmeno un ringraziamento per quelli che lo hanno votato: “Dell’Utri si presentò all’Europee…hanno preso degli impegni, dopo le Europee ca acchianaru non si sono visti più con nessuno…ma lui se viene deve pigghiari impegni e l’ava a manteniri però…tu un tà scantari, insomma, tu acchianasti all’elezioni europee? Ma chi buoi? Picchì un ci isti mancu a ringraziari i cristiani ca ti votaru all’europee…Dell’Utri non è più venuto a Palermo…perché l’unica persona con cui parlava Dell’Utri lo hanno arrestato, quello con cui Dell’Utri ha preso l’impegno, ca fu ddu cristiano, chistu Iachinu Capizzi ca era chiddu di sessantotto anni”. Eccolo qui, dunque, l’uomo che ha formalmente preso l’impegno con Dell’Utri: Gioacchino Capizzi, destinatario nel 2001 di un ordine di custodia cautelare in carcere per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, responsabile di numerosi omicidi e reggente del mandamento di Santa Maria del Gesù, lo stesso a cui appartenevano i vari Stefano Bontate, Mimmo Teresi, i fratelli Pullarà, Vittorio Mangano e Pippo Calò. “Il Tribunale ha tratto dunque la conclusione che Dell’Utri aveva preso impegni con la mafia, aveva promesso cose buone per Cosa Nostra sui vari, importanti e già indicati fronti politico-giudiziari, essendo consapevole, in quanto organizzatore in prima persona, del fatto che, comunque, Forza Italia sarebbe stato un partito garantista, a motivo di tutte le svariate ragioni riconducibili all’ideologia politica ed agli interessi imprenditoriali di Silvio Berlusconi”.
Una bella lettura per chi vota ancora Forza Italia, hooppssss Berlusconi.