A mio Padre allevato dai pastori.
Grazie a lui è nato in me l’amore
per la natura e per la storia locale.
Alla mia famiglia che mi ha sempre
sostenuto e spronato ed è stata per me
da sempre modello da seguire.
Con 98 illustrazioni.
Impaginazione:
Edizioni “Le matite colorate” sas
Via E. De Amicis 1/5 – 65123 Pescara
Tel. 085.2058245
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ISBN: 978 8897 41 7 39 2
IL TRATTURO DELLE FATE
Prof. Franco Sabini
Il titolo aleggia fra natura e leggenda, ma il contenuto del libro è
un campionario esemplare della vita materiale irrobustita dalle durezze
del vivere quotidiano, addolcita dal legame simbiotico dell’uomo
con i suoi animali e dai sentimenti di affetto per i familiari lontani,
confortata dalle credenze religiose e dalla presenza di luoghi di
culto lungo il percorso. Nel racconto dell’autore, attorno a questo
dato costante si è strutturata la presenza dell’autorità politica che ha
disciplinato e sfruttato il fenomeno biologico e naturale della transumanza,
considerandola opportunità di entrate fiscali ma anche
modo di affermare l’autorevolezza del potere costituito nei confronti
dei contrastanti interessi economici e sociali.
La prima disciplina del fenomeno è legata al consolidamento di
un nuovo potere (quello degli Aragona a Napoli); la fine della disciplina
dello stesso fenomeno è determinata dall’affermazione del potere
del nuovo stato unitario italiano (quando era scomparso il Regno
di Napoli) e si ponevano problemi di ordine pubblico e di riconoscimento
dell’autorità del nuovo stato. L’autore esamina il fenomeno
della transumanza nei suoi aspetti giuridici, nella dimensione
temporale che va dall’impero romano all’affermazione dello
stato unitario italiano, nella dimensione spaziale fondamentale che
va da Celano a Borgo Celano, ai piedi del Gargano, in territorio del
comune di San Marco in Lamis.
Detto questo, si potrebbe pensare che la ricerca possa essere stata
motivata dalla curiosità di uno storico di professione per una attivi6
tà, quella della pastorizia, tradizionalmente marginale e marginalizzante
nell’area appenninica e quindi portatrice di un disagio sociale
che ha alimentato talvolta i conflitti sociali. Questo aspetto è pur
presente nella narrazione, ma si esaurisce in giudizi taglienti che
l’autore non nasconde e di cui mostra di compiacersi. Ma l’aspetto
significativo di questa storia secondo me sta in altro, ossia sta nel
modo in cui l’opera è nata e nell’atteggiamento che l’autore ha avuto,
dall’inizio, di fronte al suo oggetto. L’autore coltiva la passione
per la montagna e la natura e per questo è venuto a conoscenza, per
visione diretta, dei percorsi dei tratturi con tutto quanto entro essi è
ancora visibile, ossia specie botaniche, lapidi, termini, ruderi, abbeveratoi
e qualcos’altro ancora; ha collegato le cose viste ai suoi ricordi
e alle storie che in paese ancora si raccontano. Da quelle osservazioni
e da quei ricordi sono scaturite le domande alle quali ha cercato
risposta con letture di testi storici ma soprattutto con la ricerca
di alcuni fondamentali documenti in vari archivi e l’uso, sempre valido,
di interviste, che gli hanno consentito perfino di stringere nuove
amicizie e coltivarle.
Il primo approccio al testo mi ha immediatamente richiamato alla
mente un passaggio delle Storie di Tucidide (I, 22, 2-4) in cui si
legge: “ho raccontato (degli avvenimenti) quelli a cui io stesso fui
presente e sui quali mi informai dagli altri con maggiore esattezza
possibili”. La parte preponderante del libro è quella in cui si descrivono
i caratteri fisici e gli elementi culturali dei tratturi, si dà conto
delle normative relative ad essi emanate, delle relazioni redatte dai
protagonisti, talvolta si confrontano le fonti; molto viva è la parte
che riporta interviste e racconta aneddoti di vita reale. Tutto è frutto
di osservazione e ricerche, proprio nello spirito enunciato da Tucidide
e nel senso etimologico, più genuino, della storia come testimonianza
di cose viste e sentite in prima persona. Anche per questa
ragione considero emotivamente giustificabile l’attenzione verso
quelle figure umane chiamate con il loro nome popolare, quasi sempre
più veritiero del nome anagrafico. Verso quel mondo non è il caso
di esprimere nostalgia ma non si può nascondere ammirazione.
La sensibilità civica dell’autore, e in una certa misura la sua attività
lavorativa, lo hanno portato a prestare attenzione al patrimonio
naturalistico, all’attività delle istituzioni che si sono proposto di tutelarli,
a formulare auspici sulla concretezza delle misure di tutela.
Nell’insieme, questo lavoro, realizzato al di fuori di ogni modello
agiografico, è stato un piacere per il suo autore che, in più punti,
si è giovanilmente meravigliato per le sue scoperte o per la conferma
e il rafforzamento delle sue convinzioni, ma è un piacere anche
per il lettore che constata il normale intreccio di strutture e sovrastrutture
nella vita quotidiana degli umili, dei singoli e delle masse.
F. S.
LE RADICI DELLA NOSTRA IDENTITÀ
Romolo Liberale
L’arte pastorale è cosa antica, che nacque allorché fu creata la terra in
que’ primi avventurosi tempi quand’era latte il cibo del pargoletto mondo, e culla il bosco… (Stefano Di Stefano)
Scrivere o parlare di pastorizia, transumanza, tratturi è parlare di
una storia che, con fondate ragioni, è stata definita “civiltà della
transumanza”. E tale fu quel complesso di impegni e di manualità
che si svolgeva lungo gli impervi sentieri erbosi che l’Editto di Alfonso
I d’Aragona aveva riordinato per garantire all’erario del proprio
regno cospicue ricchezze. Il Tratturo L’Aquila-Foggia, chiamato
il “Trattuto del Re”, era lungo 243 chilometri; il Tratturo Pescasseroli-
Candela era lungo 211 chilometri; il Tratturo Celano-Foggia
era lungo 207 chilometri e correva nel cuore dell’Abruzzo prima di
immettersi nei territori confinanti. È a questo Tratturo che Giancarlo
Sociali dedica, pur nell’ampia documentazione storica così ricca
nel volume, una particolare attenzione. E lo fa “dall’interno”, cioè
con lo spirito di chi delle manualità agro-pastorali conosce, per tradizione
familiare, fatiche, affanni, dedizione. L’autore non è un visitatore
distaccato da una realtà nella quale si è plasmata una identità
di cui si sente partecipe e figlio. E rivisitando questa storia, riordinandola
minutamente per fatti, eventi, usi, costumi, testimonia il li-
vello d’amore per un mondo che dentro tanti chilometri e 111 metri
di larghezza ha segnato la vita di intere generazioni.
In sede di presentazione di un volume che raccoglie l’immane fatica
di una ricerca e di un riordino, e che ci viene proposta come documento
di conoscenza e di meditazione, sarebbe sbagliato indugiare
in una dettagliata elencazione dei meriti che la pubblicazione
contiene e all’interno della quale vi sono delle “chicche” che rischierebbero
di svanire nel regno delle dimenticanze che il tempo e la pigrizia
culturale inesorabilmente producono. Si leggano e si rileggano
le pagine dedicate agli aneddoti celanesi: è un recupero della memoria
che Giancarlo fa perché questo patrimonio di espressioni, che
intricano molto con la locale, domestica, paesana vita di relazione,
continui a vivere per il dovere, oltre che per il gusto, di conoscere di
quale vivezza lessicale era fatto il “parlar del borgo” che ha affascinato
fior di dialettologi. Ma nel volume, spicca anche un ricco comparto
della religiosità pastorale che ha nell’Arcangelo Michele il
nuovo nume. Ed è questo angelo chiamato santo che – nell’immaginario
dei transumanti che vivono la decadenza del politeismo mitologico
e l’avvento del cristianesimo – toglie dalla mano del robusto
Ercole clavigero l’usata clava e arma la propria mano. Ed è così
che San Michele Arcangelo viene accolto e acclamato da generazioni
di mandriani come nuovo protettore. E vivamente suggestive sono
le pagine che hanno come scenario di riferimento la Marsica dove
la terra dei serpari lascia spazio alla terra dei pecorai. Sono pagi-
ne scritte con amore le quali, pur nel rigore storico, testimoniano
l’affetto per una terra che in ragione degli eventi che l’hanno segnata
ha dovuto risalire, di dolore in dolore, verso la sua emancipazione.
E chi sapeva della esistenza della stipa nel panorama naturalistico
della Marsica? Giancarlo Sociali la cerca, la trova, la classifica. E
la Stipa, da pianta botanica, si carica di favola e di poesia divenendo
lino delle fate che nel gusto degli ornamenti domestici fa bella mostra
di sé, come le cose semplici della ruralità, dando grazia e lietezza
alla casa contadina.
La fatica di Giancarlo Sociali si aggiunge alla ricca letteratura che
ha per oggetto la pastorizia, la transumanza, i tratturi. Se quella che
fu definita “civiltà della transumanza” ha alimentato la saggistica la
puntualizzazione storica, la narrativa, le arti, la poesia, la musica, i
canti e le favole, non è senza ragione. E molte di queste ragioni sono
racchiuse nel ponderoso volume che Giancarlo Sociali ci propone.
E io, a mia volta, propongo al lettore questa “perla” lirica del sensibilissimo
Jean Claude Izzo che sintetizza la resurrezione delle selvagge
sterpaglie a motivo rigoglioso di vita :
Qui, aveva pensato il mattino del suo arrivo,
nulla cambia. Tutto muore e rinasce.
Anche se ci sono più villaggi morenti che vivi.
Sempre, prima o poi,
un uomo reinventa i gesti
più antichi. E tutto ricomincia.
I sentieri, coperti dalla sterpaglia,
ritrovano la loro ragione di esistere.
È questa la memoria della montagna.
R. L.
- Lino delle Fate o Capelli delle Streghe.
Sì, il tratturo delle Fate è il Celano-Foggia. Lungo il suo tracciato nasce la Stipa Austroitalica piumata, in dialetto “Pelume”, o Lino delle Fate. La stipa Austroitalica, unica al mondo, si unisce al tesoro del Regio Tratturo, anzi sembra che al pari delle pecore la Stipa abbia segnato il corso dei Tratturi dalla Marsica alla Puglia.


Questa specie,
unica al mondo, cresce nelle nostre terre ed in parte dell’Italia centro
meridionale. Ad oggi la Marsica era stato dimenticata dai botanici, che
inseriscono questa specie solo nelle regioni di Puglia, Molise, Basilicata e
Sicilia ed in parte nell’Abruzzo costiero. Infatti persino uno studio recente
pubblicato nel 1986 su Webbia, a cura di Moraldo Benito, parla della diffusione
della pianta solo nelle località sopra citate.
L’autore da anni seguiva la storia di queste piante effettuando raccolte su
tutto il territorio, confrontando le stesse con materiale conservato nei
principali Erbari italiani ed europei e scambiando pareri con studiosi
monografici del genere. Lo studioso rintracciò generi di stipa austroitalica in
territori abruzzesi costieri ma non marsicani.
La Stipa austroitalica è una specie botanica particolarmente protetta a livello
europeo (Allegato II della Direttiva habitat 92/43 CEE), in quanto raro
endemismo dell’Italia centro-meridionale. E’ una pianta erbacea perenne,
cespugliosa, alta dai 30-80 cm, tipica delle praterie steppiche e dei pascoli
aridi, soprattutto dove la roccia è affiorante.[1]
Nel 2003, successivi studi condotti da Benito Moraldi e Carlo Ricceri hanno
portato ad accertare la presenza della Stipa austroitalica oltre che nei
territori costieri anche nei territori collinari interni, nello specifico nei
terreni a pascolo.
[1] Descrizione SISTEMATICA:Regno: Plantae;
Sottoregno: Tracheobionta – Piante vascolari; Superdivisione: Spermatophyta –
Piante con semi; Divisione: Magnoliophyta (Angiospermae) – Piante con fiori;
Classe: Liliopsida Batsch, Tab. Affin.
Regni Veg.: 121. 2 Mai 1802. Ordine: Cyperales Wettst., Handb. Syst. Bot., 2,
2: 815-816. Mai 1911. Famiglia: Poaceae (R.
Br.) Barnh., Bull. Torrey Bot. Club 22: 7. 15 Jan 1895, 22: 7. 15 Jan 1895,
nom. cons.
Genere: Stipa L. (1753) Specie: Stipa austroitalica
Martinowsky
DESCRIZIONE:
Tipo: pianta erbacea perenne, cespugliosa. Altezza (min./max) 30-80 cm. Fusto:
eretto, rigido Foglie: rigide, con lamina sottile, conduplicata, e con ligula
breve. Infiorescenza: pannocchia pauciflora. Fiori: con lemmi provvisti di
reste piumose molto lunghe (20-30 cm), di colore bianco-niveo Spighette:
uniflore, provviste di glume subeguali, formate da una parte laminare (lunga
circa 2 cm.) e da una resta di uguale lunghezza. Frutto: cariosside
Durante le mie ricerche sui Tratturi e sulla civiltà della Transumanza ho fatto una recente ed importantissima scoperta che riguarda la localizzazione nel nostro territorio della specie Stipa austroitalica Martinowsky. Il Lino delle Fate è presente in altri territori Abruzzesi specialmente lungo i Tratturi. Infatti anche nella Marsica è presente la Stipa austroitalica con varianti alle classiche stipe come sottospecie endemica. La mancata catalogazione delle specie nel nostro territorio ha permesso sinora una speculazione dei terreni a pascolo, classificati strumentalmente ed ignorantemente come terreni improduttivi e abbandonati. In questo modo le politiche locali, seguendo interessi economici, hanno favorito un deturpamento del territorio con una vetrificazione la vetrificazione fotovoltaica e la costruzione di Megalitici Mulini eolici a Vento di acciaio.
Invece si dovrebbero porre dei vincoli ai preziosissimi paesaggi dei pascoli rocciosi a pseudo steppa mediterranea dell’entroterra Abruzzese rispettando la direttiva habitat 92743CEE, che stabilisce la tutela prioritaria di tale habitat.
Per tali ragioni invito le autorità competenti a prendere le necessarie misure di tutela nei confronti della specie che, a conti fatti, rappresenta una delle specie più importanti della Marsica e d’Abruzzo. La presenza di questa specie è della massima rilevanza ai fini conservazionistici e rappresenta un’ulteriore forte motivazione affinché si arrivi a definire con urgenza un’area protetta nella Marsica e nel Parco Regionale Velino Sirente, per salvaguardare questa ed altre importanti specie presenti.
La stipa Autroitalica era presente nella cultura popolare del nostro territorio, con la denominazione di Lino delle Fate.
Infatti racconti antichi dicono che le fate scendevano sui monti d’Abruzzo per raccogliere queste piante considerate come il lino, per fabbricarsi i propri vestiti argentati in modo da luccicare nella notte. Non sono lontani i tempi in cui i bambini e le bambine giocavano con i Capelli di Fata unendoli in mazzetti e buttandoli in aria per ammirare il loro volteggiare leggero ed unico nel ridiscendere a terra. In alcuni luoghi di montagna non trovando spago o filo per legarli, li intingevano nello sterco di mucca che seccandosi faceva da tenuta al mazzetto, creando una base più pesante dei “Pelumme”, facendo in modo che ridiscendesse sempre di punta e non dalla parte del fiore.

Non per ultimo, occorre ricordare che lungo i tratturi si svolgevano le processioni di ritorno dalla SS. Trinità di Vallepietra e, proprio in queste processioni, i capelli di Fata ornavano le “Pertiche”, lunghe aste di legno di faggio, con le quali i giovani gareggiavano in onore del culto religioso a chi riportava nel proprio paese la più lunga e pesante. Da non dimenticare che allora il percorso si svolgeva completamente a piedi. Leggende e storia, passato e futuro, sostenibilità e ambiente sono così intrecciati dal Lino delle fate dei tratturi
Parlare di futuro attraverso gli antichi tratturi sembra a dir poco irreale e fantasioso, eppure oggi possiamo osservare come questi tracciati fossero studiati in modo strategico e come siano ancora di piena attualità.
I tratturi furono infatti creati non solo per il transito dei pastori con le loro greggi, ma soprattutto per quegli scambi senza dei quali le popolazioni non avrebbero avuto le possibilità di arricchire, oltre che il proprio patrimonio economico, anche quello culturale.
Questo lavoro nasce, così, con l’intento di mettere a conoscenza delle generazioni odierne e di quelle future quella che fu non solo l’unica fonte di reddito dei nostri avi, ma soprattutto quella pratica lavorativa che servì a congiungere popolazioni diverse, non solo sotto l’aspetto puramente economico, ma anche dal punto di vista culturale e religioso. Il presente testo è dunque utile a far sì che non cada nell’oblio la pratica della pastorizia, che arricchì e unì l’Abruzzo insieme al Molise alla Puglia.
Seguirà il secondo capitolo del Libro.
2) Storia dei tratturi e della transumanza
Sulle sponde dell’antico Lago di Celano, poi Lago del Fucino, da
sempre esistette un antichissimo tracciato, chiamato “calles” o “semita
aspera qua pecora in montes ire solent” (aspri sentieri sui quali
sogliono transitare le pecore sui monti), utilizzato anche per ragioni
economiche e militari fino ai nostri giorni.
Su questi sentieri, che con gli Aragonesi (1447) erano in media
larghi 111 metri, si svolgeva il fenomeno chiamato transumanza. Il
termine transumanza è un termine composto da “trans” (forma avverbiale
per dire andare attraverso) e “humus” (suolo), con il significato
di trasferimento di persone e bestiame in estate verso i pascoli
della montagna e in autunno verso i pascoli del piano.
Le prime transumanze si ebbero già nella preistoria, come attestato
da graffiti reperiti entro alcune grotte e furono del tipo verticale,
suggerite all’uomo dalla natura e dal ritmico succedersi delle
stagioni più che dalla sua ingegnosità.

La pastorizia ha sempre rappresentato un reddito importante per
i popoli, e particolare rilievo ebbe l’allevamento del bestiame nell’età
del bronzo. Intorno al 1500 a.C. in Italia si ebbe una cultura per
così dire montano-appenninica, data cioè dai luoghi dove veniva
praticata l’attività dell’allevamento.
Questi spostamenti dai monti verso il piano e viceversa furono
vissuti come un istinto naturale. L’istinto muove infatti le bestie verso
pascoli rigogliosi e abbondanti di acqua, e il pastore sa di doverne
assecondare i movimenti.
Da vari studi si è scoperto che esistevano tre zone distinte dove
avvenivano questi tipi di allevamento. Una zona settentrionale che
comprendeva parte dell’Emilia e della Toscana; un’area centrale che
comprendeva le Marche, il Lazio, l’Umbria e parte dell’Abruzzo; e
una zona meridionale che comprendeva la rimanente parte dell’Abruzzo,
la Campania, e le Puglie.
Studiando l’Abruzzo, possiamo dividerlo in due distinte entità:
una comprendente la zona del teramano, cioè, tutta la parte a nord
del Gran Sasso e la parte dell’aquilano immediatamente sotto di esso,
e l’altra che va dal Fucino alle Puglie. In entrambe le zone ci sono
degli insediamenti, sia in grotta che all’aperto; la differenza fra
questi due tipi di insediamenti è data dal fatto che quelli in grotta
erano piuttosto occasionali, cioè venivano utilizzati temporaneamente
dai pastori durante i loro spostamenti, mentre quelli all’aperto
denotavano un’attività più stabile.

Su questi tracciati ci sono stati numerosi ritrovamenti archeologici
che testimoniano l’importanza e la specializzazione raggiunta in
questo tipo di attività. Questi insediamenti, nel VI secolo a.C., sorsero
su tutta la dorsale appenninica in altura e successivamente furono
circondati da mura di difesa megalitiche, che si diffusero fino
in epoca romana, fino a divenire centri fortificati.
Per arrivare a definire quello che fu il fenomeno della transumanza
nella Marsica e nel Mezzogiorno italiano bisogna per forza
parlare della sua storia, da dove e da quando venne praticata.
Non è dato conoscere quali e quante furono le vie armentizie nei
tempi più lontani, ma sappiamo che, ancor prima della costruzione
delle strade romane, la sede naturale per gli innumerevoli traffici
economici, culturali e religiosi era quella dei percorsi adibiti al transito
delle pecore. Queste strade dovevano essere soltanto delle piste
di terra battuta che, per ragioni di convenienza, i pastori utilizzavano
annualmente per le loro migrazioni e che dovevano corrispondere
in parte alle “calles” o “viae publicae” del periodo romano.
Le antiche strade, chiaramente ancora non definite come “tratturi”, nacquero nell’Italia centromeridionale con le civiltà preistoriche
e furono particolarmente sviluppate nel periodo sannita, con importanti
centri e fortificazioni sorti lungo il loro percorso.
L’arrivo dei Romani, e l’imposizione del dazio sui capi in transito,
avrebbe in seguito determinato l’insurrezione di queste genti abituate
alla libera circolazione, come appunto i Marsi.
Punto di partenza del Regio Tratturo Celano-Foggia.
L’Italia centrale nel periodo della Guerra Sociale.

- seguira’ il terzo capitolo
3) I MARSI
Secondo alcuni storici, e specialmente quelli antichi come Fabio
Pittore (III secolo a.C.), i Romani scoprirono la ricchezza dei prodotti
della pastorizia proprio quando vennero in contatto con le popolazioni
limitrofe, specialmente con quelle che occupavano il territorio
marsicano.
In seguito, vista la necessità dei pastori di poter transitare liberamente
con gli armenti, e per impedire le appropriazioni che a danno
dei pastori facevano i proprietari confinanti, fu fissata la larghezza
delle strade di transito con norme che non ammettevano deroghe.
Furono i popoli italici a tracciare per primi le strade dei pastori e
tra essi c’erano i Marsi, come narra il mito del Ver sacrum (primavera
sacra). Il nome “Marsi” è di origine sacra e deriva dalla divinità
più importante che essi veneravano: Marte, dio della guerra, che
in lingua sabellica si pronunciava “Mars” o “Mors”. Questa etimologia
spiegherebbe l’indole violenta e guerriera di questo popolo.

Il
nome fu assunto in seguito a un rito di primavera sacra, attraverso
il quale i Marsi si staccarono dal generico tronco sabellico.
Durante i numerosi conflitti che avevano coinvolto direttamente
i territori del Fucino, i Marsi si guadagnarono la fama di guerrieri
invincibili e coraggiosi, donde il famoso proverbio romano: “Né
senza i Marsi, né contro i Marsi, Roma vinse mai una guerra”. Un
altro famoso proverbio latino spiegava, invece, che per fare un guerriero
marsicano erano necessari quattro legionari romani. Il coraggio
e la forza di questo popolo furono tali che nei secoli successivi i
Marsi diventarono la spina dorsale delle legioni romane (http://it.
wikipedia.org/wiki/Marsi).

Nel 91 a.C., i Marsi uniti ai Sanniti, ai Peligni e ad altri popoli
italici, dichiararono guerra a Roma (guerra sociale). Il primo anno
di combattimenti fu favorevole agli Italici che, forti del fatto che il
loro esercito era quasi lo stesso che componeva quello romano, riuscirono
a sconfiggere gli stessi e si trovarono a un passo da Roma. I
Romani approfittando dell’inverno, periodo nel quale le battaglie si
fermavano, con la famosa arte del “divide et impera”, riuscirono a
disgregare la Lega, cedendo ad alcuni popoli dei benefici, e i Marsi,
rimasti soli, dovettero soccombere in due cruente battaglie.
La guerra servì comunque a far ottenere agli Italici lo status giuridico
di cittadini romani, con annessi tutti i privilegi che prima erano
loro negati. Questo periodo storico è molto importante perché
per la prima volta apparve il nome “Italia”, i popoli della Lega coniarono
persino delle monete recanti il nome Italia ed elessero la prima
capitale d’Italia: “Corfinium”, nel territorio odierno di Corfinio,
a pochi chilometri da Sulmona.