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LE LOTTE PER IL FUCINO

Sembra esserci un ritorno di interesse verso il mondo contadino.  Un interesse forse falso, dettato solo dalla cosiddetta filiera green e a chilometro zero. Si forse è solo questo, forse del mondo contadino di oggi e di quello che fu, non frega niente a nessuno come non fregava nulla a quella specie di principe, usurpatore di sogni e di anime.

Il ritorno al mondo della “terra”, non solo non c’è stato come si prevedeva alla fine degli anni 70, con il riprendere i terreni incolti da parte dei giovani e lavorarli, non c’è stato nemmeno piu’ nella penna degli scrittori e dei poeti.

Io per tutti quelli che si sono battuti ed hanno avuto la possibilità di scrivere la storia dei tormenti e dei patimenti ne scelgo due: Francesco Ippoliti e Romolo Liberale.

Due persone forse diametralmente opposte sotto il profilo politico, l’uno anarchico e medico e l’altro comunista ex contadino, opposte anche dal diverso periodo storico, l’uno (1865- 1 938), l’altro (1922 – 2013), ma uniti da una comune direttrice di vita: combattere l’usurpatore torlonia a favore dei contadini.

Francesco Ippoliti  (1865- 1 938), medico, figlio di piccoli proprietari terrieri, figura di spicco di quel gruppo di anarchici di San Benedetto dei Marsi costituitosi tra Ia fine dell’800 e i primi del ‘900 in seguito al fecondo incontro tra lavoratori del posto e lavoratori che avevano preso contatti con le idee anarchiche nella emigrazione statunitense. Ippoliti fu fondatore e animatore del Circolo “Il Progresso”, il quale, in un primo momento, mise al centro del suo programma la rivendicazione dell’autonomia comunale della frazione di S- Benedetto dal capoluogo Pescina. Il medico anarchico fu in costante contatto con le figure più note dell’anarchismo italiano tra cui Errico Malatesta. Fu collaboratore di numerosi periodici di tendenza anarchica. Perseguitato dal fascismo di cui conobbe spedizioni punitive, carcere e confino, è ricordato in S. Benedetto dei Marsi per la sua generosità professionale (lo chiamavano, per la sua eccessiva magrezza, ( i medechitte,) e per essere stato il “medico dei poveri” in quanto non solo non si faceva pagare le visite, ma si adoperava per procurare medicinali a chi non aveva soldi per acquistarli. Visse sempre povero e negli ultimi anni, fiaccato nel fisico per le privazioni e Ie continue persecuzioni, ebbe conforto ed aiuto solo dal suo compagno Francesco De Rubeis e dalla moglie di questi.

Di lui Ignazio Silone scriveva una cosa attualissima: “per quale destino o virtù o nevrosi, a una certa età si compie la grave scelta, si diventa “ribelli”? Scegliamo o siamo scelti? Donde viene ad alcuni quell’irrefrenabile intolleranza della rassegnazione, quell’insofferenza dell’ingiustizia, anche se colpisce altri? E quell’improvviso rimorso d’assidersi in una tavola imbandita, mentre i vicini di casa non hanno di che sfamarsi? E quella fierezza che rende le persecuzioni preferibili al disprezzo?”

Romolo Liberale di Francesco Ippoliti diceva: Mia madre  narrandoci con la fantasia propria della contadina analfabeta le controprocessioni degli anarchici nelle quali il calvario era il quotidiano andare dei contadini nei terreni del Fucino e le quattordici stazioni erano le quattordici disgrazie torloniane: 1) l’alto fitto della terra,2) il cappio del subaffitto3), i debiti col principe, 4)la minaccia dello sfratto,5) le spese per I’avvocato, 6)il sequestro dei prodotti, 7)la rapina nel peso delle bietole, 8)il ritardo nel pagamento delle bietole, 9)le pretese dei guardiani, 10)il divieto di irrigazione, 11)il divieto di transito, 12)ll divieto di costruire ricoveri, 13)le regalie ai fattori, 14)i tassi della Banca del Fucino;  e narrandoci  a modo suo uno dei momenti piu alti delle lotte contadine del primo dopoguerra, quello dell’occupazione delle terre del 1920 – ci cantava strofe del canto scritto da Francesco Ippoliti.

I  particolari aspetti della durezza del lavoro nei campi furono trasformati da Francesco Ippoliti in un canto, presumibilmente composto nei primi anni del secolo scorso. In questo periodo i sovversivi marsicani avevano come unico punto di riferimento il Circolo “Il Progresso” di cui lo stesso medico anarchico fu fondatore ed animatore in S. Benedetto dei Marsi. Il canto dà la dimensione di come sui contadini del Fucino agissero, in modo soffocante, da una parte la mano spietatamente rapace del padrone e dall’altra le mille insidie e le prepotenze dei guardiani e dei fattori, cioè quella struttura disumana su cui si reggeva il potere torloniano, per concluderi con un invito a prendere coscienza della necessità di liberarsi “dal borghese sfruttator” e “dai suoi vili servitor”.

Il canto è composto da undici strofe, ognuna delle quali mette in risalto la durezza del lavoro dei campi e nel contempo la spietatezza del padrone ed i suoi fidi guardiani. Organizzazione quella del torlonia atta a soffocare qualsiasi possibilità di progresso. Riuscendo sempre più ad assoggettare le masse di contadini inermi e poveri.  

IL CANTO

  1. Con la zappa in su le spaIIe con I’aratro sempre avanti  ce ne andiamo tutti quanti Ia dimane a lavorar. Nell’inverno sotto il gelo nell’estate al sol cocente sotto l’acqua che repente col sudor ne va a bagnar’.
  2. Nel cammin  lontan lontano or la Polvere c’imbratta ora il fango ci maltratta senza speme di gioir. Pane duro e Putrid’acqua ci nutrisce e insiem c’infetta il raccolto invan si aspetta la famiglia per nutrir.
  3. Quando vien la messe d’oro che inebria i sensi a noi fitta schiera d’avvoltoi il cammin ne sbarra allor. E quei frutti già maturi tosto il principe ne toglie e con esso il vitto coglie e di vergini gli amor.
  4. Da speculatori ingordi che il principe protegge siamo tosati come gregge senza ombra di pietà”. Dei terreni l’alto fitto ci raddoppiano gli stessi del lavor le nostre messi ci dividono a metà.
  5. Quando s’entra in mezzo ai campi niun ci vede, niun ci sente; vento, pioggia, sol cocente chi ci aiuta ad evitar? Si coltiva, si concima, la sementa si sotterra le intemperie ci fa guerra e il signor sta a gavazzan
  6. Il sudor ne imbratta i panni dura e lorda vien la pelle, ne le madri e le sorelle piu ci arrivano a curar. Cibo il ventre ci rifiuta stanchi sopra un duro stallo aspettiam che canti il gallo annunziant e l’ albeggiar.
  7. Alternando notte e giorno noi alziam al ciel la prece del lavor che ognuno fece frutto aspetta e spighe d’or. Ma il ricolto tanto atteso si presenti magro o grasso il guardiano fa il gradasso per iI ben del suo signor.
  8. Tanto il miser contadino che il piccolo borghese a mezz’anno fan le spese col ricolto d’avvenir. Ma d’arpia feroce ardita via lo strappa il guardiano; questo è l’ordine sovrano: contadino va a morir!
  9. Nei caffè, concerti e balli e nei circoli pomposi con dei balli lussuriosi passa il tempo il reo signor. Con le lacrime e sudor che versiam da mane a sera ei discaccia tutta intera la sua noia e il greve umor.
  10. Lui piacer, gioia, contento, cibo e vino e amore accorto; noi dolor, pene, sconforto duro pane e scarso vin. Trascorrendo così gli anni noi coloni ed operai sempre al ciel mandiamo i lai finche morte giunge alfin.
  11. Che si aspetta? Su fratelli senza classe tutti uniti combattiamo insieme arditi il borghese sfruttator. Ed i vili servitori che fan guardia aI capitale non risparmi il nostro strale dessi sono traditor. Scuotiamo iI gioco indomito ne appar se vili siam uniti in un sol fascio fratelli combattiam.

ROMOLO LIBERALE

Romolo Liberale era figlio di contadini poveri, contadino egli stesso da giovane, ma rimasto ancorato alla realtà contadina per sempre. Egli, è stato un autodidatta perché non aveva la possibilità economica di andare a scuola, ed ha trovato da autodidatta l’alimento per la sua formazione culturale, per l’ispirazione della sua poesia, per i suoi ideali e il suo impegno politico. Romolo Liberale ha saputo cosa è il passato ed ha saputo che oggi, è il frutto delle lotte di ieri.

Fu dirigente del partito comunista e dell’Alleanza dei contadini, uno degli animatori delle lotte del Fucino che portarono nel 1950-51 i contadini a strappare a Torlonia le terre. Romolo Liberale ha scritto poesie in dialetto e in lingua italiana, pubblicate in varie raccolte, ottenendo numerosi premi e riconoscimenti. Attento interprete, oltre che protagonista, di quelle lotte, egli è anche uno dei più autorevoli studiosi che hanno operato una ricostruzione della storia del movimento contadino del Fucino e di tutto I’Abruzzo.

Romolo Liberale venne anche arrestato e processato. E in carcere maturano e vengono scritti alcuni canti del poema Fucino mio paese. Fucino mio paese è appunto la rappresentazione poetica della lotta vittoriosa di un popolo contro un principe: del popolo del Fucino che strappa a Torlonia le terre su cui quattro generazioni contadine costruirono per lui.

 Alcuni versi di Romolo, versi che più di altri mi danno l’idea e la percezione di quello che poteva essere quell’epoca:

I santi che aiutarono i nostri padri a piegare la schiena ora sono desti e guardano trattori rumorosi

correre su asfalti che non conoscono zoccoli e basti.

Anche la gran madonna dell’Incile è tornata contadina non più fantasma di pietra bianca del serpente-padrone

e laddove asini e muli tiravano carretti e vignarole

danzano benne d’acciaio abbracciando prodigi di lavoro.

In Fucino mio paese, Romolo esprime anche la sua poesia e la tragedia di un popolo: 

Mio padre non amava la sua terra

e cercava il suo destino

sul palmo della mano rugosa

di una zingara ubriaca. 

In alcuni passaggi appare la speranza come in questo: 

Quando apparvero per la strada i primi clamori e i primi canti

capii che il destino di mio padre e della gente del mio paese era nella terra del Fucino.

Però il Fucino era anche ed è ancora:

un regno con fatiche senza canto

pensando lontane albe di speranza

entro lunghi tramonti di pena.

L’usurpazione del Fucino fu reale e drammatica, come quelle che subirono  gli abitanti ripuari con il diritto della pesca. Nessun diritto fu riconvertito nelle terre prosciugate, solo alcune cose erano sicure: lutti e fame.

Gli olivi e le uve morirono con i pesci e le reti

e quando il sangue scomparve dalle vene del lago

le tempie fredde della nostra terra muta e ferita

chiesero all’uomo baci d’amore e nuove primavere.

Allora il fango e acquitrino diffusero nascosti veleni di morte

Poi, nel 1947, si ebbe la rottura dell’unità nazionale nel governo dell’Italia e le elezioni del 1948. E’ questo il momento in cui il padronato agrario approfitta della favorevole congiuntura politica e si chiude completamente al movimento nelle campagne. Ed è questo, di conseguenza, il momento in cui gli scontri si fanno sempre più aspri e sanguinosi.

Ai vari morti in Italia si aggiungono quelli di Lentella e di Celano. Gia qualche anno prima , il 16 ottobre 1944, Domenico Spera, un contadino povero di Ortucchio, era caduto in una imboscata tesa contro la popolazione che si recava festante ad occupare un’azienda di Torlonia.  Fu, quel triste episodio, l’inizio di un movimento di popolo contro  Casa Torlonia. Un movimento volto a liberare i contadini da quel ciclo completo: l’alto fitto della terra, la Banca del Fucino con i suoi esosi interessi, lo zuccherificio a cui i contadini dovevano consegnare il prodotto; una situazione che il famigerato Lodo Bottai del 1929 (ancora vigente), aveva contribuito ad aggravare.

Vivissime sono le pagine che Romolo Liberale dedica a queste lotte, e in queste lotte, durante un entusiasmante sciopero a rovescio, mentre Torlonia comincia a vacillare ed è costretto a firmare un accordo favorevole ai contadini, avviene l’eccidio di Celano. Ecco come lo racconta Romolo Liberale:

I “cafoni del Fucino”non avevano ancora assaporato la vittoria, quando nella piazza di Celano riecheggiavano, la sera del 30 aprile 1950, colpi di fucile e di pistole contro i braccianti. In una feroce imboscata, riapparve il volto della reazione agraria: i fascisti e carabinieri spararono contro i lavoratori che attendevano di sapere se erano stati prescelti per il turno di lavoro nel Fucino in applicazione dell’imponibile. Tra i numerosi feriti,in un clima di rabbia e di paura nello stesso tempo, Agostino Paris e Antonio Berardicurti, due contadini poveri di Celano, furono barbaramente trucidati. E gli sconfitti si presero una sanguinosa rivincita. 

Ma si trattava degli ultimi sussulti di una reazione cieca e vile. Il movimento riprende forte e impetuoso e strappa al Governo il decreto per l’applicazione della legge stralcio nel Fucino. Così il 1° marzo 1951, la Gazzetta Ufficiale pubblica l’atto che porterà alla cacciata di Torlonia dalle terre del Fucino.

  e con i giorni del Cinquanta costruimmo nuovi chiarori.

E questa lotta che Romolo Liberale canta, con passione e con slancio, con versi dolci e amari, con immagini soavi e violente, in Fucino mio paese.

 Il Fucino ha una specificità che Romolo coglie all’inizio del poema con versi che ci immettono subito nell’universo della sua poesia:

Cos’é questo Fucino dove ogni inno è un grido

ogni parola è un fatto ogni gioia chiede dolori ogni minuto diventa storia?

Cos’é questo Fucino dove anche i vapori hanno la durezza della pietra

ogni stretta di mano è un giuramento di sangue ogni preghiera è anche una maledizione?

Lo sciopero al rovescio:

i picchi le zappe il badile la jeep infuriata, le ostili divise i mitra impazziti il fuoco di piombo

le urla la rabbia . . . E i morti i corpi raccolti tra pozze di sangue e il pianto e le donne vestite di nero

i figli smarriti le ore sommerse dai lutti le ore spezzate ed a pezzi raccolte e composte nel tempo che passa invocando speranze….

figli di questa terra amata avara d’amore?

Poi Romolo il poeta chiede:

  Le parole che vi dico nacquero dall’idioma delle nonne e mi entrarono nel cuore come tagli di falci affilate e come i fiori delle siepi spinose del Fucino.

  Con quelle parole vi dico che cerco ancora come ho cercato sempre nella rossa casa dei miei sogni angoli di luce immacolata dove non v’è posto per magie e pugnali e dove il nome alto che ci demmo non porta segni di congiure.  

perché i pugni che levammo per le strade non ci rimangano crocifissi nel petto.


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