Pastori e proprietari di pecore abruzzesi presenti nei pascoli di Vallata
28 Gennaio 2022
Vicende politiche a Celano (28 Febbraio 2021)
28 Febbraio 2022
Pastori e proprietari di pecore abruzzesi presenti nei pascoli di Vallata
28 Gennaio 2022
Vicende politiche a Celano (28 Febbraio 2021)
28 Febbraio 2022

Senza famiglia sul Sirente

Dopo aver perso sua madre, Luigi venne coinvolto in una serie di peripezie che lo portarono a fare il garzone – pastore. Nonostante la sua inesperienza nel condurre un gregge, venne istruito nel trasporto del formaggio e dei viveri tra la montagna e il paese. Le sue frequenti traversate tra le montagne del massiccio del Sirente erano un rituale quotidiano, accompagnate dai pensieri costanti per la madre mai conosciuta ma sempre sognata.

Crescendo, affrontò il momento di guidare il gregge, di trascorrere il tempo da solo in montagna. Le solitarie riflessioni dei pastori, le loro lotte per raggiungere l’erba più verde e pregiata, le continue sfide contro i lupi e gli elementi atmosferici che in quota rivelano la grandezza e la potenza della natura, tutto contribuiva a creare leggendaria la vita del pastore.

Ogni giorno interagiva con madre natura, studiandone il comportamento, dialogando con i cani e le pecore per evitare l’isolamento. La notte portava con sé un aumento della tensione, sia per il gregge, i cani ed il pastore.

La montagna sembrava giocare con la fantasia, emettendo suoni di uccelli notturni e animali invisibili ma udibili. I cani abbaiavano nel vuoto, reagendo ai suoni, ma spesso tutto si risolveva in silenzio. Sulle capanne chiamate “Cassij”, paletti simili a spaventapasseri proteggevano dai lupi, mentre i veri pastori raccontavano storie attorno al fuoco. I racconti erano intervallati da momenti di ascolto silenzioso, durante i quali i pastori ascoltavano il gregge, i cani, i gufi e le civette, prima di riprendere a raccontare.

L’alba portava con sé le prime luci, trovando Luigi pronto per la sua routine quotidiana. Il gregge, i cani e la maestosa Montagna Grande… il Sirente.

Come un artista, la montagna scolpiva il suo carattere, ed era costante  la ricerca di solitudine e isolamento, con il gregge ed i cani. Era diventato un pastore, seguiva le orme dei suoi predecessori, i primi filosofi del mondo. I primi a contemplare la natura, i primi a dialogare con eventi, cielo, stelle e luna. Si proprio con la luna, la stessa del pastore errante dell’Asia  di Giacomo Leopardi. La domanda era sempre la stessa: quale valore ha la vita del pastore? Lui lo sapeva, per il padrone valeva meno del suo gregge.

Luigi affrontava monti, valli, vento, tempesta, sole, ghiaccio, torrenti e stagni, senza riposo.

Imparava ogni dettaglio della natura: ogni filo d’erba, ogni pietra, ogni roccia. Battezzava luoghi, fonti, persino piante, trasmettendo la toponomastica antica di generazione in generazione. Viveva nel ricordo per prevedere il futuro, come era stato sempre fatto e come sarebbe sempre stato.

Come nel “Canto del Servo Pastore” di De André, i suoi pensieri erano rivolti al destino, incerto sulla direzione da prendere senza conoscere la strada. Non aveva famiglia, legami sociali o contatti con la società, ma trovava compagnia nella natura.

Il suo cane non lo lasciava mai solo.

Lui e il gregge erano l’anello vitale per il possente mastino abruzzese, che era grande ma leggero, tenero ma cattivo, sonnolento ma sveglio, schivo ma socievole. Non si sapeva se Luigi e gli altri pastori avevano influenzato il cane o se il cane aveva influenzato loro nel carattere. Un dilemma millenario. In ogni caso, Luigi ed il suo cane vivono nel mondo reale, la montagna, senza considerare guerra, governo, comunità o sindaco.

Era tutto presente solo per le tasse, portate fino in montagna da guardie che imponevano leggi e sanzioni, figlii di proletari che opprimevano i loro simili.

La vita era dura, era proibito avvicinarsi a rami secchi per il fuoco o abbeverarsi alle fonti. Tutto era vietato, ma Luigi si atteneva alle regole, cercando trasparenza e rispetto. Appartenendo alla società, voleva essere degno di viverci, riscattando la povertà materiale con ricchezza di valori, amicizie e ideali.

Amato ed ammirato, Luigi cantava e intratteneva nelle piazze, con una voce che faceva sospirare le fanciulle. Viveva nei rioni, partecipava alla vita, portando allegria e amore.

Mentre scrivo, vedo Luigi tra le montagne del Sirente, cantando alle pecore, fischiando ai cani, o tornato in paese  cantare tra le strade. Lo vedo allegro, amato e circondato, un uomo che ha lasciato un’impronta indelebile nella natura che amava. E sì, lui era amato ed ammirato. Nei quartieri, era lusingato e chiamato “Le Bellizze” con l’affettuoso diminutivo di “Gino”; (Gin L B’llizz). Le fanciulle sospiravano per lui e lo apprezzavano per la sua bella voce. Nei suoi ritorni in paese, lo si poteva trovare a cantare nei quartieri insieme alle ragazze e ai ragazzi, mentre si scartocciavano fagioli nell’aia o si pigiava l’uva nelle cantine per farne mosto

Luigi, non cedette mai alle strade distorte della vita. Il suo stile di vita era caratterizzato dalla trasparenza e dal rispetto delle regole imposte dalla società. Sì, perché lui faceva parte di essa, ne era figlio adottivo, accolto tra i suoi simili, e desiderava essere degno di appartenervi. Voleva riscattare la sua povertà materiale con la ricchezza di valori, di ideali, e con le amicizie che lo cercavano, lo intrattenevano, lo amavano.

Sì, lo vedo così, allegro ed amato, e non da solo tra le vette del Sirente, quando il vento gli sferzava il viso, il sole abbronzava la sua pelle, e la notte lo accompagnava tra spettri e figure invisibili, addirittura da lui battezzate con nomi propri.

La fame era la sua principale preoccupazione. Chissà quanta ne ha sofferto lui stesso e quanta ne ha visto soffrire, quella fame violenta e terribile che logora l’anima, che ti fa sentire impotente e costantemente in pericolo. E così, per non pensarci, lui ed altri ragazzi, si inventavano giochi. Si radunavano alla “Savecett”, una sorgente in alta quota, e giocavano a “Tozz i Vuccon”. Pezzi di pane presi con la bocca sopra la superficie dell’acqua delle sorgenti, con le mani strette dietro la schiena. In pratica, ognuno prendeva la sua fetta di pane quotidiano, la spezzava in piccoli pezzi e insieme li lasciavano sull’acqua. Poi, tutti insieme, correvano alla seconda vasca per raccogliere i pezzi di pane galleggianti e cercavano di mangiarne il più possibile, bevendo tanta acqua da provare una prima e breve sensazione di sazietà. Ecco, erano i giochi della fame, la fame nera del pastore.

LUIGI, mio ​​padre. Giancarlo Sociali

Comments are closed.