Senza famiglia sul Sirente

Dopo aver perso la madre, venne dopo varie peripezie, il giorno in cui inizia a fare il garzone – pastore. Lui, un piccolo che nemmeno sapeva condurre un gregge, viene iniziato nel trasporto del formaggio e viveri in montagna e dalla montagna in paese. I suoi passaggi in mezzo ai monti del massiccio del Sirente erano giornalieri, come erano giornalieri i pensieri alla madre mai conosciuta, ma sempre sognata.

Crebbe ed arrivò il momento di condurre il gregge, il momento di rimanere solo in montagna. La solitudine dei pastori, le loro riflessioni, le loro battaglie per arrivare nell’erba più verde e più buona, le loro continue lotte con i lupi, con gli agenti atmosferici che in quota ti fanno toccare con mano la grandezza della natura e la sua impressionante forza, quegli agenti naturali che fanno diventare leggenda quel modo di vivere, era la vita del pastore.

Rapportarsi tutti i giorni con madre natura, continuamente guardare il suo carattere per prevederlo, parlare con i propri cani ed anche con le proprie pecore per non sentirsi solo, in balia degli eventi, in un miscuglio di pazzia e sopravvivenza e arriva la notte. Come tutte le notti, i cani diventano maggiormente guardinghi, attenti, aumenta la tensione come quella del pastore.

La montagna nel silenzio, sembra giocare con l’immaginazione altrui, e manda uccelli notturni, animali invisibili ma udibili. Se ne sente la vicinanza, i cani abbaiano nel vuoto, partono come se avessero visto il nemico, ma poi nulla, anch’essi in balia della montagna. Sui “Cassij” (capanne) piomba la notte e pali a mò di spaventapasseri diventano pastori per tenere lontano gli attacchi dei lupi, mentre loro, i pastori veri, intorno al fuoco raccontano. Durante i racconti, spesso in modo simultaneo, si interrompono ed in silenzio assoluto ascoltano, ascoltano il gregge, i cani, i gufi e le civette per poi ritornare a raccontare. Spesso sobbalzavano anche il troppo silenzio.

Finalmente le prime luci dell’alba, trovavano Luigi già sveglio pronto per il lavoro quotidiano. Il gregge, i cani e lei … la Montagna Grande.. il Sirente.

Dentro di lui come un artista, la montagna scolpisce quella inguaribile malattia di cercare la solitudine, l’isolamento con il suo gregge ed i suoi cani. Lui è un pastore, fa’ l’arte dei primi filosofi al mondo. I primi ad avere un’azione contemplativa e di dialogo con la natura, con gli eventi, con il cielo, le stelle e la luna. Si la luna, la stessa del pastore errante dell’asia, la stessa di Giacomo Leopardi. Le domande sono le stesse: cosa vale la vita del pastore?  Lui lo sa, per il padrone meno del suo gregge.

E poi su per monti e valli, tra vento e tempesta, tra sole e ghiaccio; tra torrenti e stagni, senza riposo e ristoro.

E così impara ogni filo d’erba, ogni pietra, ogni roccia. Si danno i nomi ai luoghi, alle fonti, persino alle piante rinforzando la toponomastica antica tramandandola da uomo ad uomo, di padre in figlio, da vecchio a ragazzo. Si vive nel ricordo per prevedere il futuro, come sempre è stato fatto e come sempre sarà.

E come nel “ canto del servo pastore” di De Andrè i suoi pensieri sono diretti al suo destino, non sa quale sia la direzione da prendere, non conosce la strada,

non ha genitori, non ha legami con la società, ma lascia tracce del suo passaggio nella sua “compagna”, la natura. Natura che mai è stata da lui tradita, non conoscendo mai le luci delle feste del paese e del focolare domestico.

Il suo cane lo guardava, non lo lasciava solo un istante con i suoi occhi.

Lui ed il gregge erano le uniche ragioni di vita per il possente mastino Abruzzese, grande, pesante ma anche leggero, tenero ma anche cattivo, sonnacchioso ma anche sveglio, schivo ma anche socievole. Insomma Abruzzese. Non si sà se lui, Luigi, come tutti gli altri pastori, abbiano reso a loro somiglianza il cane, o è il cane che ha reso così loro. Dilemma millenario. In ogni caso loro, Luigi ed il suo cane, vivevano la loro vita nell’unico mondo reale; la montagna; il resto non esisteva. Non esisteva la guerra, non esisteva il governo, non esisteva il comune e non esisteva il Sindaco.

O meglio esistevano, ma solo per le gabelle; ed esse arrivavano anche li su, sulla montagna.

Facevano quella lunga strada accompagnate dalle divise campestri, guardie che dovevano ordinare, guardare e sanzionare. Essi, figli di proletari che comminavano sanzioni agli stessi proletari.

Quant’è dura la vita; non potevano avvicinarsi nemmeno ad un ramo secco per il fuoco, l’autorità lo vietava; non potevano abbeverarsi alle fonti perchè l’autorità lo vietava. Tutto era vietato, ed ecco allora che chi doveva sopravvivere a volte sbagliava, o era invogliato a sbagliare, ma lui Luigi, mai lo fece. Il suo stile di vita era la trasparenza ed il rispetto delle norme, e il suo vivere quotidiano era come la società comanda. Si, perchè lui apparteneva alla società, era figlio di essa che lo aveva adottato, accolto fra i suoi simili, ed egli in quella società voleva essere degno di viverci, voleva riscattare la sua povertà materiale con la ricchezza di valori, degli ideali, con la ricchezza delle amicizie, amicizie che lo cercavano, lo intrattenevano, lo amavano.

Si lo amavano, perchè Luigi era amato ed ammirato. Nei rioni veniva lusingato, gli veniva chiesto un canto, uno stornello, una serenata. Si, perchè Luigi aveva una bella voce, le fanciulle sospiravano per lui che era chiamato “Le Bellizze” con il diminutivo di “Gino”; (Gin L B’llizz).

Mentre scrivo di lui, sembra vederlo sui monti del Sirente cantare alle sue pecore, fischiare ai suoi cani, oppure nel ritorno al paese cantare nei rioni insieme alle ragazze e ai ragazzi mentre si scartocciava, o si battevano i fagioli nell’aia, oppure quando nelle cantine si pigiava l’uva per farne mosto. Si, lo vedo e voglio continuare a vederlo così, allegro ed amato e non da solo nei monti del Sirente, quando il vento gli sferzava la faccia, quando il sole gli seccava la pelle, quando la notte lo faceva accompagnare a decine di figure invisibili, spettri di ogni notte, spettri che addirittura egli aveva dato nome.

I suoi moniti principali erano per la fame. Si la fame, chissà quanta ne ha sofferta e quanta ne ha visto soffrire, quella fame violenta terribile che imbruttisce, che ti fa sentire inerme, costantemente in pericolo. Ed ecco allora i giochi per alleviarla, per non pensare. I ragazzi si riunivano alla “Savecett”, un fontanile in altura e giocavano a “Tozz i Vuccon”. Tozzi di pane presi con la bocca su una superficie di acqua dei fontanili con le mani dietro la schiena. In sostanza ognuno prendeva la propria fetta di pane giornaliera, la spezzava facendone dei piccoli pezzi e tutti insieme le lasciavano nell’acqua, dopodiché  di corsa alla seconda vasca ad aspettare l’arrivo del pane e con le mani dietro la schiena, si cercava di mangiarne il più possibile ingurgitando tanta di quell’acqua da dare una prima e breve sensazione di sazietà. Ecco, i giochi della fame… la fame nera del pastore.

LUIGI, mio padre.

Giancarlo Sociali