Dopo aver perso la madre, Luigi si trovò coinvolto in un intricato susseguirsi di vicende che lo condussero a intraprendere il duro mestiere di garzone e pastore. Nonostante la sua inesperienza nella gestione di un gregge, venne rapidamente istruito nelle mansioni quotidiane: il trasporto del formaggio e dei viveri tra la montagna e il paese. Le sue traversate giornaliere attraverso le asperità del massiccio del Sirente divennero un rituale costante, scandito da pensieri nostalgici per quella madre mai conosciuta, ma sempre idealizzata e sognata.
Con il passare del tempo, Luigi si ritrovò ad assumere il pieno controllo del gregge, a vivere lunghi periodi in solitudine tra le montagne. Le sue giornate si intrecciavano a quelle della natura, e le riflessioni solitarie, tipiche dei pastori, si affacciavano su un’esistenza dove l’essenziale si mescolava alla poesia. Le lotte per garantire al gregge il pascolo migliore, le sfide incessanti contro i lupi e l’imprevedibilità degli elementi atmosferici, tutto contribuiva a rendere la vita del pastore un’epopea fuori dal tempo.
Ogni giorno, Luigi dialogava con la natura, ne osservava i ritmi, stabilendo un’intima connessione con i cani e le pecore, antidoto alla solitudine. Quando calava la notte, l’oscurità accentuava il senso di tensione: i belati del gregge, i guaiti dei cani e gli strani suoni della montagna – fruscii, richiami di uccelli notturni, versi di animali invisibili – amplificavano il mistero di quel mondo selvaggio. Spesso, i cani abbaiavano nel vuoto, percependo minacce che si dissolvevano in silenzi carichi di suggestione. Accanto alle capanne, i “Cassij,” rudimentali spaventapasseri montani si ergevano a difesa contro i lupi, mentre i pastori si raccoglievano attorno al fuoco per raccontare storie. Le narrazioni, alternate a pause di meditazione e ascolto, si mescolavano ai suoni della notte, creando una sinfonia naturale di voci e silenzi.
All’alba, i primi raggi di sole accendevano il cielo, trovando Luigi pronto per un nuovo giorno. Il gregge, i fedeli cani e la maestosa Montagna Grande – il Sirente – lo attendevano. La montagna stessa sembrava scolpire il suo spirito, temprandolo con la ricerca di solitudine e introspezione. Luigi era ormai un pastore nel senso più autentico, erede spirituale di quegli antichi filosofi che per primi avevano contemplato la natura e dialogato con il cielo, le stelle e la luna. Proprio la luna, come nel “pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi, diventava per lui un’interlocutrice muta ma profondamente eloquente. La domanda rimaneva sospesa: quale valore ha la vita di un pastore? Luigi lo sapeva bene: per il padrone, la sua vita valeva meno del gregge che proteggeva con dedizione assoluta.
In quella vita aspra e priva di riposo, Luigi affrontava monti e valli, venti furiosi, tempeste e torrenti gelidi, imparando a conoscere ogni dettaglio del paesaggio che lo circondava. Ogni filo d’erba, ogni pietra e sorgente portava un nome, e lui ne custodiva la memoria, tramandandola con cura, come si tramanda una mappa sacra. Viveva ancorato al passato per prevedere il futuro, perpetuando una saggezza antica e immutabile.
La natura, però, non era la sua unica compagna. Il suo fedele mastino abruzzese, possente e vigile, incarnava lo spirito stesso della montagna. Grande ma agile, dolce ma feroce, sonnolento eppure sempre attento, il cane era il custode silenzioso del pastore. Si diceva che tra Luigi e i suoi cani vi fosse un legame indecifrabile, un rapporto di reciproca influenza che sfuggiva a ogni spiegazione logica.
Eppure, la vita di Luigi non era soltanto isolamento. Quando tornava al paese, portava con sé una vitalità che accendeva le piazze e i rioni. Con la sua voce melodiosa, intonava canti che facevano sospirare le fanciulle. Era un uomo amato e stimato, soprannominato con affetto “Le Bellizze,” o più semplicemente “Gino.” Durante le serate di vendemmia o mentre si scartocciava il granturco nell’aia, la sua presenza portava allegria e calore, unendo giovani e anziani in momenti di condivisione autentica.
Nonostante le privazioni e le ingiustizie, Luigi rimase sempre fedele a un codice di vita basato su trasparenza e rispetto. Figlio adottivo di una società che talvolta lo opprimeva ma che egli sentiva di voler onorare, cercava di riscattare la sua povertà materiale attraverso una ricchezza morale fatta di valori, amicizie e ideali.
Mentre scrivo, lo immagino ancora, tra le vette del Sirente: il volto scolpito dal vento, la pelle arsa dal sole, lo sguardo rivolto verso un orizzonte infinito. Lo vedo fischiare ai cani, cantare alle pecore o animare le strade del paese con la sua gioia contagiosa. Luigi, un uomo che ha lasciato un’impronta indelebile non solo tra le montagne che amava, ma anche nei cuori di chi lo ha conosciuto.
Luigi mio Padre !
Giancarlo Sociali