La Montagna Grande di Celano, il Sirente
24 Marzo 2020JACOVELLA DI CELANO “in pillole”
25 Aprile 2020Non si può parlare della Marsica, per lo meno di quella medioevale se non si parla di Jacovella Contessa di Celano.
Essa apparteneva ad una delle sette casate del Regno, discendente dagli antichi Conti dei Marsi, con origini vantate risalenti addirittura a Carlo Magno.
Jacovella o Covella era l’ultima dei figli del Conte Nicolo’, nacque probabilmente nel 1418 ed a causa della morte, prima del padre, e poi del fratello prematuramente, ereditò tutti i beni di famiglia divenendo una delle poche donne a comando di una contea.
Dovette sposarsi per dare stabilità al contado, ma dopo due matrimoni finiti quasi immediatamente, trovo’ la sua pace matrimoniale con Lionello Acclazamurro nipote di Jacopo Caldora precedente marito.
Purtroppo, nel 1458, rimasta di nuovo vedova, si ritrovò a governare da sola la contea di Celano e a crescere i tre figli Ruggero, Pietro ed Isabella.
La nostra Contessa riusciva a districarsi bene nei giochi di potere dell’epoca. Poteri amministrati esclusivamente da uomini, di uomini importanti e famiglie potenti, come Martino V e i Colonna, gli Angioini, gli Aragonesi, Caldora, Piccinino, Pio II, i Piccolomini, gli Sforza, Federico da Montefeltro, Giovanni da Capestrano e molte altre.
Ebbene, Jacovella non solo riuscì a tenere testa e ad ottenere rispetto ed ammirazione da questi, ma addirittura prese fama di essere una valente e coraggiosa condottiera.
Non è lo spirito di questo lavoro tracciare la vita esclusiva di Jacovella sotto il profilo amministrativo militare, ma quello di trattare il casato dei Conti di Celano che ha in un certo qualmodo, con la presenza di Jacovella, destabilizzato il mondo medioevale, togliendo quello stereotipo di governante ferreo, calcolatore ed addirittura insensibile, introducendo delle note colorite di amore anche se romanzate.
Per iniziare questo discorso con un soffio di tenerezza, possiamo citare dapprima Edward Lear che nel suo viaggio nelle terre d’Abruzzo, scrisse che della vita di Jacovella, in quanto “memorabile”, da sola ci si potrebbe scrivere un romanzo. Ed anche se non trattandoli qui, bisogna citare i lavori del nostro Augusto Cantelmi, che è riproposto in diverse pubblicazioni, uscite a distanza di pochi anni (tra cui 1970, 1975, 1976) sulla vita di Jacovella, e di Ugo Maria Palanza (1985), che attinge con evidenza alla vita di Covella di Celano, per il personaggio del suo romanzo che chiama Giovanna dell’Aja.
Detto questo, mi soffermerò, e renderò leggibile anche se lo era già per la maggior parte il romanzo storico di Tommaso Aurelio De Felici che nel 1862 a Napoli stampa : “Leggende e Tradizioni popolari nel Regno di Napoli”.
In questa leggenda il De Felici, tratta di un amore tra il figlio della Contessa di Celano, il Conte “Ruggero” con una fanciulla “Marietta”, e della caparbietà di una madre, la Contessa “Covella”, che deve combattere tra il proprio amore di mamma, e la tenacia di una “fredda” condottiera. Nella leggenda il De Felici, romanza molto sull’amore dei giovani e rende fredda calcolatrice la Contessa, ma quel che ne esce per l’epoca è un lavoro bellissimo che voglio rendere leggibile e farlo conoscere a tutti. Buona lettura.
Giancarlo Sociali
COVELLA DI CELANO
Leggenda Abruzzese
Una sera di Gennaio del 1462 assai rigida e tempestosa, si affrettava a gran passi verso il Lago Fucino un giovanotto in treno da cacciatore; il quale come giunto alla riva spinse per ogni parte lo sguardo con inquietudine mista a malumore, ed indi, veduta inutile la sua investigazione, si diresse ad una prossima capanna, donde ad un suo fischio venne fuori una donna di assai alta statura, e poveramente vestita. Quegli le domandò di suo marito, e l’altra avanzandogli incontro con atti tra ossequiosi ed amorevoli,
– Ah! Messere, gli rispondeva, temo che il vecchio Emidio non si avventuri a passare il Lago con questo tempo, e che voi corriate il pericolo di passarvela fuori del Castello una notte. Son capitati dopo mezzogiorno due soldati che mostravano pure gran fretta di vedere l’altra banda dell’acqua, e non ci è stato modo di non contenderli sul fatto.
– E dove vuoi tu che m’ accomodi questa notte?–
–Questo è più facile a domandarlo che a rispondervi. Se la capanna della povera vostra serva fosse meno angusta e disagiata, o avesse almeno un più comodo letto . . . vi sarebbe bensì la casa del signor Paolo; ma ieri appunto egli è partito col suo servo, e la riman chiusa . . . ma sì, aspettate, che già ho trovato per il fatto nostro. Volete accomodarvi presso la Signora Marietta ? Bella casa, agiato letto, cortesi accoglienze… –
Fu interrotta la ciarliera femmina dal giovane che le chiese chi fosse la Signora da lei nominata; cui quella con moto di non simulata meraviglia:
– Come? non conoscete la Signora Marietta? la fata di questi contorni? la benedizione del Paese?… Ma vi dovete almeno ricordare di quel vecchio Signore che venne fra noi, chi sa da dove, e comprò la casa sul Lago col podere dipendente, il quale non fu veduto una sola volta sorridere, nè parlare ad alcuno . . . Ebbene il povero Signore son tre mesi ch’è morto, ed ora resta nella casa del Lago la Marietta che certo deve essergli figlia, ed un vecchio servo cui ella riguarda meno come domestico che qual padre –
– Ma par egli conveniente andare per alloggio da una fanciulla isolata, la quale avrà tutta la ragione di non ricevermi in casa ?
– Non so se persona al Mondo oserebbe negare l’ospitalità di una notte al Contino di Celano nel giro di tutto il Paese a lui sottoposto , non certo però il farebbe mai la Signorina Marietta, la quale tanto discreta è ed umana.
– Proviamoci dunque disse il giovane Barone dopo avere alquanto riflettuto ; e lasciata la donna si avviò al luogo designatogli. Venne il vecchio domestico a riceverlo; il quale come apprese e la condizione del sopraggiunto, e la sua inchiesta, senza punto titubare lo introdusse in casa, e fattolo sedere avanti un bel fuoco che ardeva nel caminetto della sala, gli disse che andava ad avvertire la Padrona.
ll Contino di Celano profittò dei brevi momenti che restò solo in quella camera per volgersi intorno uno sguardo curioso. L’esame da se fatto lo convinse del buon gusto della giovine abitatrice della casa. Per quanto da quella stanza sembrava sbandito il lusso, per altrettanto vi si vedeva in ogni menoma cosa serbata la massima politezza ed eleganza. Pendevano dalle pareti imbiancate cornici di legno lustrato, nelle quali si contenevano disegni di paesaggi e soggetti pastorali, e che, a giudicare da quello sospeso sulla cappa del caminetto accusavano la maestria della mano onde erano usciti. Le sedie, gli armadi, tutta la mobilia disposta nel salotto mostravano sottrarsi alla moda goffa e pesante del tempo. Presso il caminetto era una gran tavola su cui si vedevano matite e colori e disegni, altri abozzati solamente, altri già finiti o che solo attendevano l’ultima mano; in tutti i quali non si stentava a riconoscere subito lo stesso autore di quelli disposti per le pareti. Sulla stessa tavola erano altresì dei libri, ed accanto ad essa un telaietto da ricamo, contro al quale c’era appoggiata pure un arpa.
Frattanto però che l’ ospite novello di quella camera ne an dava con occhio interessato e curioso esaminando ogni parte, tutta la sua attenzione venne richiamata dalla Signora del luogo, che venne a salutarlo, e dargli il benvenuto, e pregarlo di contentarsi della povera ospitalità che poteva offrirgli nel suo stato solitario e modesto. Mentre la giovinetta dirigeva le sue parole a lui che la guardava stupìto, la più viva porpora ne animò le guance pallide , e sgominata da virginale pudore in vedersi siffattamente affissare, declinò al suolo gli sguardi. ll Conte alla fine dominato tuttavia da turbamento e stupore tentò anch’ egli di formare parole di scusa, per aver dovuto turbare la di lei solitudine, producendo i motivi che ve lo avevano astretto. Successe non breve silenzio alle poche, imbarazzate parole di reciproco accoglimento fatte da prima; ma il Conte riaprì la conversazione, facendola cadere sui belli disegni che si vedevano sulla tavola, chiedendole ad un tempo con tal tuono il quale dimostrava più un’ assertiva, anzichè una domanda . se fossero essi opera delle di lei mani, e poi additando anche l’ arpa, se usasse sovente ricrearsi dalla noia della solitudine con gli alleviamenti della musica.
Alla prima parte dell’ inchiesta la fanciulla rispose affermativamente con un solo accennar del capo; poi recatasi l’arpa nelle mani, dopo averne con mano abile e svelta cavato un vago preludio cantò:
*L’ oRFANELLA Sulla riva litiera Della placida marina S’ti un mit la ri . li spin di dlr Matilde perina ,
fui la pena era i nel luogo dell’esil Ella resta abbaninatà . folle ligne sul tigli Msun laia al suo doll.
0rfanella sventurata Ha perdtti i nitr., . Mesta, nesta negli affanni, Nel silenti, nell’ oblio. Tra i lunghi giorni e gli anni. E dinanda iian pietà. Il destino aterb e rio Quando alfi si stancherà? Inieli l il bel sorriso
D’ una madre a lei fu tolt0 ; Mrte altur le ha il padre alti, Ella alcuno più non ha. 0anio il Cielo alfin alto
Ai suoi pianti presterà? l’ (fanella derelitta Solo un voto ammette in tr , l’orfanella trista, afflitta FIIa appena un sol desir; Rlla invoca dal Signore Solo il bene di morir. Che mai rista all’ itfelit , (ui fu tolto tutto in terra? Sol la tomba a lei si addit , Per francarsi dal soffrit ; Se il destin le nuove guerra Fino all’ultimo spir.*
Terminato il suo canto Marietta, deponendo l’arpa al suo posto, rispondeva con un sorriso malinconico agli encomi del suo Ospite, il quale di una in altra domanda, giunto finalmente a chiederle come fosse venuta ad abitare nella casa solitaria del Lago, così quella gli prese a narrare la sua storia.
STORIA DELLA MARlETTA
« Io nacqui in Acri grossa e forte terra della Calabria. Mio Padre per nome Nicolò Clancioffo n’era uno dei principali cittadini; il quale tolse in moglie una Grimaldi, i cui parenti erano stati dal Paese sbandeggiati, ed appresso morti in un tentativo da lor fatto per rientrare armata mano con una banda di fuorusciti nella terra. Non mai si diede al Mondo maggior concordia di quella che regnava trai miei genitori, facendosi mio Padre una legge di non far sentire alla sposa la sciagurata perdita dei suoi a forza di amarla del più verace affetto, e di circondarla delle più delicate e tenere cure che danno indizio non fallace dei sentimenti di chi le pratica. Questo amore reciproco venne ancora rafforzato di più dalla mia nascita la quale sembrò aver loro fatto attingere l’apice di ogni umana felicità. Ma trista esperienza ci mostra di continuo, che quando l’uomo tiene il supremo culmine della prosperità, gli è imminente di precipitare nell’opposto eccesso della miseria; e tal fu della mia sventurata famiglia.
« Veniva frequente in casa nostra un lontano parente di mio padre, per nome Gismondo Molano il quale sotto un esteriore benevolo e gentile celava il più scellerato animo del Mondo. A forza d’ipocrisia, e di esagerate mostre di attaccamento ed interesse costui era riuscito totalmente ad impadronirsi del cuore di mio padre che lo considerava quale un fratello e gli confidava ben volentieri la cura di tutti i suoi affari, concedendogli tutta la sua fiducia e la medesima autorità sua. Egli sulle prime fu largo di ogni sorta di rispetto e cortesia verso la mia Genitrice la quale anch’ella nella ingenuità del suo cuore lo corrispondeva degli eguali riguardi. Una sera ( io era ancor fanciullina che non oltrepassava i cinque anni, ma ho sempre viva la ricordanza di quella sera, ) mio Padre era fuori, quando capitò nella stanza dove io mi baloccava presso la mamma che era intenta ad un suo ricamo , il Melano. Venutosi a sedere presso mia madre, le mosse non so che discorsi pei quali ella molto si turbò, e chiamatami più presso a lei mi teneva per mano, quasi temesse di farmi allontanare. Ad un tratto eccoti che, non so quali parole quello le muovesse, gli corrispose con uno schiaffo, ed alzatasi tutta tremante di sdegno ed arrossita in volto, traendomi con se andò a chiudersi nelle sue stanze, ove , diede in un pianto dirotto. La prima cosa poi che fece dopo aver dato luogo a quello sfogo fu di comandarmi che nulla avessi detto al babbo di quel fatto, sicura di essere da me obbedita, stante la discretezza a cui ella stessa mi aveva avvezzata.
« Da quel giorno l’esistenza di mia madre parve dello in tutto cambiarsi. Ella divenne seria, riservata, e traeva per lo più il suo tempo nella solitudine, schivando a tutto suo potere di trovarsi con Melano. Questi per altro non mutò punto del suo fare; la stessa frequenza, la medesima cera benevola ed ipocrita, l’ eguale affaccendarsi ed interessarsi delle cose spettanti alla nostra famiglia. A tutt’ altro Padre che il mio non sarebbe sfuggito certamente il mutato tenor di vita della sua donna, e lo studio di essa per schivare la compagnia del Melano col quale per lo avanti trovavasi insieme sì spesso; ma ingolfato com’egli era nel vortice tempestoso dei politici affari del Paese, non vi badò punto. Avvenne intanto uno strano caso che cagionò fra poco la sciagurata catastrofe della mia sventurata famiglia.
« Un giorno ( era presso al tramonto ) stavamo mia madre ed io presso una finestra che metteva sul giardino di casa. Sotto la finestra vangava la terra un contadino che di tanto in tanto sospendeva il suo lavoro per rimirare dalla nostra banda con molta attenzione ed interessamento. Ci colpirono veramente questi strani modi del villano, ma più ancora sembrò turbarsene mia madre la quale anch’ella cominciò per sua parte a considerare attentamente colui, nel qual suo esame era veramente poco favorita dalla distanza, dalla luce mancante del giorno, e più ancora dall’aver colui il viso molto imbrattato e sucido di terra. Alla fine, siccome già imbruniva, ci togliemmo dalla finestra; ma non eravamo ancora nel mezzo della camera , che venne a cadere, quasi ai nostri piedi un oggetto gettatovi dal di fuori. Era un sassetto col quale stava legata una carta. Mia madre lo accolse, e tutta tremante per la grande agitazione lesse i caratteri di quella carta e ritornò alla finestra dove io già l’aveva preceduta. Il contadino non era più nel giardino»
Quella sera mia madre, facendo vista di essere aggravata da forte mal di capo, diede ad intendere alla sua Cameriera che si metterebbe per tempo a letto. Lo che fatto, si chiuse meco nelle sue stanze, e si diede la gran premura di farmi coricare. lo ve l’ ho detto che allora la mia età era appena di cinque anni; ma aveva tale discernimento assai superiore a tale età. Però mossa da molta curiosità del caso di quel giorno, e del turbamento ed agitazione che trasparivano dal volto di mia madre, non seppi accomodarmi a dormire, ed era tuttavia svegliata, quando fu dato un leggier picchio alle imposte già chiuse della finestra. La mia genitrice si affrettò ad andarle a spalancare, e non riuscendolo a contenere, un uomo saltò nella camera, il contadino che avevamo veduto nel giardino. Com’ egli fu nella stanza abbracciò con trasporto mia madre la quale caramente baciandolo gl’inondava il viso di lacrime. Poscia quella lo trasse presso il mio letto; il quale inchinatosi a riguardarmi con interesse misto a tenerezza,mi baciò. Successe fra loro un lungo colloquio del quale nulla potei intendere, parlando essi a bassa voce ; mi parve solo fraintendere più volte il nome di mio padre da essi pronunziato. Finalmente si divisero, l’ uno tornandosene donde era venuto, e mia madre dopo averlo alquanto accompagnato collo sguardo, richiuse la finestra e venne a coricarsi.
« Dietro quella strana visita mia madre accolse molte altre volte nell’ ugual modo colui durante la notte. In capo di tempo una notte, mentre secondo il solito s’ intrattenevano, io che già dormiva fui sveglia da non so quali forti, inusuali rumori. Si menavano grandi colpi alla porta della stanza, quasi la si volesse atterrare, e s’ intendeva la voce sdegnata, minacciosa di mio Padre che con parole dure ingiungeva di aprire. L’uomo che s’intratteneva colla mia genitrice mise sulle prime la mano ad una spada che trasse di sotto i suoi abiti, e si avviò verso la porta, qual se avesse pensiero di aprirla; ma mia madre gli si parò davanti, e lo scongiurò con tacita preghiera a non fare. Allora egli si ritirò per la finestra, dalla quale l’ altra ne accompagnava collo sguardo la ritirata , nulla curandosi del tempestare dei colpi che si faceva alla porta. Ad un tratto però , mentre colui scendeva per la scala di corde sospesa alla finestra, mia madre gli gridò con voce spaventata :
– Enrico guardati ! t’insidiano nel giardino –
« In questo cadeva atterrata finalmente la porta della camera, e mio Padre che udiva le parole della sua donna , e la sorprendeva in atto che con tanta ansietà guardava in giù, spregiando o dimenticando il proprio periglio, le si scagliava addosso furibondo, e la passava da parte a parte con la spada.
– È salvo ! ella disse cadendo; poi volta al marito con moribonda voce soggiunse:– Era mio fratello Enrico –
e spirò.
« Quell’uomo era infatti il fratello di mia madre, il quale, come accennai , bandito dalla patria, ed unico scampato dal generale eccidio dei suoi, tenendolo tutti per morto, era rivenuto sotto mentiti abiti nel paese a ritentare checchè gli valesse il ritorno nello stesso e mosso da affetto per la sorella unico bene che le restasse sulla terra si era fino alla stessa introdotto nel nodo che dicemmo. Si era dovuto poi tener celato con ogni cura a mio Padre il segreto ed illegale ritorno di suo cognato; poichè essendo quello il capo del partito contrario, nelle cui mani risedeva l’ autorità, ed era fidata la sicurezza del Paese , per la troppa di lui severità temevasi a ragione che qualora avesse il bandito nelle mani, non riguarderebbe ai vincoli del sangue ed ai suoi particolari interessi, quando il dovere di magistrato, e lo spirito di parte lo chiamassero ad usar giustizia e rigore. Ma sventuratamente per quanto la mia genitrice ed il fratel suo avevano interesse, e serbavano cautela, perchè il loro segreto non si venisse punto a traspirare, era pur troppo in casa uno scellerato traditore che vegliava incessante a raccogliere ogni menomo indizio che gli dasse agio di poter sfogare il suo odio e livore per una ingiuria meritamente ricevuta. Dico di Melano il quale spiando accuratamente e di continuo ogni atto di mia madre,giunse a divenir padrone del segreto fatale, e, sia che s’ ingannasse egli stesso, supponendo che quella avesse criminose relazioni con uno sconosciuto, sia che per infernale suggestione così s’infingesse per ottenere pura, irreparabile vendetta, degna della sua malvagità, andò dritto a riferire al mio genitore la sua scoperta, che uno straniero s’introduceva ogni notte nelle stanze di sua moglie; e seco concertato di postar gente nel giardino per impedire la fuga a quello sconosciuto, il resto seguì nel nodo che vi dissi L’insidiato intanto bravamente difendendosi, giunse a salvarsi, mentre lo sventurato mio genitore. tardi conosciuta l’ innocenza di sua moglie, si disperava sul corpo della stessa fatto cadavere per le sue mani.
« Lungamente mio Padre restò inconsolabile del tristo caso toccatogli , in riparazione del quale altro non potè fare, che provocare il richiamo di suo Cognato dal bando, e mandare in esilio il Melano, di cui si scoprirono alcune triste pratiche coi nemici del Paese. In questo stato di cose passarono vari anni, durante i quali la condizione della cosa pubblica rendendosi di giorno in giorno sempre ancor più malagevole, finalmente sopravvenne l’ultima catastrofe di distruzione e rovina alla mia povera famiglia.
« Ferveva tremenda, accanita la guerra tra Re Ferdinando e Duca Giovanni d’Angiò. Siccome per tutto il Regno, così anche la Calabria era scissa nei due partiti, e sosteneva i duri effetti dell’ odio tristissimo di parti e delle cittadine dissensioni. Giovambattista Grimaldi capitano per l’Angioiuo, venuto a Bisignano designò sottomettere il distretto di Cosenza, di cui una parte teneva pel Re, ed un’altra per l’Angiò. Masi Barrese altro Capitano di Re Ferdinando, traspirato tal disegno del nemico, si affrettò a venire in soccorso dei travagliati dal Grimaldi; il quale tosto si ridusse sotto la nostra terra, ed intimare la resa, non essendovi argomenti di resistergli, si aprirono a lui le porte, e venne ricevuto in Acri.
Poco stante sopravvenne sotto le nostre mura il Barrese, e diede alla terra il primo assalto,cagionando, e riportando gran danno e perdita di gente. Dietro quell’ assalto durato un intero giorno, ed altri ancora vanamente tentati, durante i quali quei di dentro si difesero con un valore e sforzo inusitato , trattandosi della difesa delle proprie famiglie e della roba contro l’ira e la vendetta di un capitano crudelissimo, qual generalmente era conosciuto il Barrese, questi perduta la speranza di avere la terra, se ne tornava a Bisignano coi suoi; quando il tristo tradimento si offrì a giovare il nemico, cagionando l’estremo nostro danno e rovina. – –
« Venne dunque a presentarsi al Barrese un tale, che gli prometteva l’ acquisto della terra con facile sforzo, purchè poscia venisse giovato in una sua vendetta contro quei concittadini che particolarmente lo avevano bandito. Quest’uomo era il traditore Melano che messosi di concerto con taluni della terra, ed appresi al nemico i punti deboli o indifesi della stessa, gli rese agevole un’impresa della quale si era finora disperato. In breve di notte tempo i nemici ebbero l’ agio di penetrare fin dentro la terra, e questa fu presa, ad onta dell’ ostinato difendersi dei traditi che la munivano. Seguirono a tale sventura gli atti più crudeli per parte del Barrese e dei suoi soldati i quali ebbero la viltà di vendicarsi della resistenza loro opposta. Fortuna che Melano non giungesse a fruire i frutti del suo tradimento, restando morto nella mischia.
Con tutto ciò mio Padre fu cercato ovunque con impegno, e, forse, si sarebbe riuscio a prenderlo, se non era la fedeltà di un servo di casa, il quale ebbe tanto animo di spacciarsi da se pel suo padrone, affinchè questi frattanto avesse l’agio di fuggire. Infelice! lo sapemmo dappoi-che subì il supplizio destinato a colui che aveva salvato, venendo segato vivo .
Scampati con molta pena dall’eccidio della nostra Patria, mio Padre venne meco a celarsi in questo angolo lontano del Regno ove acquistata questa casa col podere attenente, insieme con un servo che ci aveva seguiti ci tenemmo nella più assoluta e perfetta solitudine. Ma troppe erano le disavventure che avevano travagliato il mio povero genitore, ed assai triste le rimembranze che ne angustiavano l’animo; sicchè egli sensibilmente declinando di giorno in giorno verso il sepolcro, in breve mi lasciò orfana e derelitta in terra straniera, priva di qualunque appoggio, consolazione o speranza.
Così terminava la Marietta il suo dolente racconto che con molta commozione e pietà fu inteso sino alla fine dal Conte di Celano. Questi che altamente sentiva per comprendere quanto sterile compenso siano alla sventura le triviali parole di conforto e consolazione che comunemente ognuno ha pronte sulle labbra in tali occasioni, si guardò dal farne, e rispettando le dolorose sensazioni ridestate nell’animo della narratrice per la richiamata memoria dei suoi casi infelici, un pezzo con lei serbò il silenzio.
In questo venne avanti il servo ad annunziare che la cena era pronta, e la giovinetta adempiendo con molta grazia e disinvoltura alla sua parte,passò col suo ospite nella stanza vicina, ove il tutto era all’uopo assai convenientemente e con molta pulitezza allestito. Dopo la cena, ordinato al servo di condurre il Conte alla stanza apparecchiatagli, ella si ritirò nella sua.
Il mattino successivo il giovine Conte prese commiato dal gentile suo ospite, e nell’ atto che baciando alla giovanetta la mano se ne dipartiva, la supplicò di considerarlo qual un amico , un fratello da cui potrebbe far capo in ogni sua bisogna, e di patire altresì che egli venisse di tanto in tanto a visitarla. La fanciulla non seppe negarsi a quelle istanze, e dato il suo assenso, l’altro partì.
Non è mio costume abbondare di descrizioni, sia che si tratti delle scene materiali della natura, sia degli affetti del cuore,
Così dunque se alcuno dei miei Lettori si aspetta da me o qualche decina di pagine gettate dietro la descrizione di un bel paesaggio, o altrettante impiegate nello snaturare con minuziosi dettagli i progressi di una passione, lo sappia ben da ora che s’inganna. Per me sta che la descrizione del sublime, del bello, del nuovo deve essere breve e rapida, se vuol produrre effetto, ed affacciarsi all’ altrui mente siccome un raggio lucidissimo di sole.
Venendo però al fatto vi dirò che i due giovani di cui ci occupammo nel capitolo antecedente, nell’ atto che si dividevano non avevano più il cuore sì libero, come nel giorno avanti, e l’ uno andava portando con se indelebile l’ ospitalità trovata nella casa del Lago, l’altro rimaneva con la viva rimembranza della visita ricevuta; entrambi sentivano pur troppo essere avvenuto un gran cambiamento nella loro esistenza. Non vi deve quindi recar meraviglia, se vi dico che il Conte di Celano non tardò ad approfittare della licenza chiesta ed ottenuta di visitare la fanciulla.
Quella seconda visita riuscì più imbarazzante della prima , e fredda, se si ha riguardo alle parole; ma certi sentimenti del cuore sono di troppo alta natura, perchè abbisognino del materiale istrumento della parola onde appalesarsi. Basta dirvi che questa seconda volta i due amanti, senza aver parlato, s’intesero di più della prima, e si separarono con ancor maggiore desiderio e con più inteso bisogno di presto rivedersi.
Nè questa terza visita venne punto indugiata ; alla quale ne successero altre regolarmente tutti i giorni; ora però i giovani avevano dritto a ritrovarsi, dacchè non erano più amanti, ma sposi.
Il Conte di Celano e la Marietta erano felici di quella felicità che san fruire gli animi gentili i quali san trovare gioie e contenti inesauribili nell’ amore. Ma non vi è contento sulla terra, che non debba affatto pagare la sua parte di tributo al tiranno della umanità, al dolore; e i due nostri giovani non potevano francarsi dalla Legge comune. La Marietta legata al Conte pei vincoli d’un giuramento scambievole sollecitava sempre lo sposo perchè il loro nodo venisse sanzionato da un Sacerdote, e fatto noto all’ universale. Questi non bramava altro egli stesso; ma v’era un ostacolo da rimuovere, un ostacolo non sì agevole a superarsi.
La Madre del Conte era tal donna di animo forte e virile, gelosa di sua autorità, superbissima della nobiltà sua. Aggiungi che ella era padrona assoluta di tutti i suoi vasti e potenti feudi, che erano sua roba dotale , e che vi esercitava ogni dritto ed imperio, riguardando suo figlio non altrimenti che uno dei suoi vassalli. Come accoglierebbe mai costei la proposta di siffatte nozze con una fanciulla priva di tutto, straniera e, quasi, ignobile? Queste ragioni ritenevano il giovane da ogni passo che potesse far traspirare a sua madre gl’ impegni da se contratti; e mentre teneva a bada la sua sposa, guardandosi dal palesare il vero stato della cosa, si affidava sempre nel futuro. In breve però si maturarono tali casi che lo trassero finalmente al passo di svelar tutto alla madre, sì perchè a lui diversa alternativa non era offerta, sì perchè speravasi appunto in siffatte contingenze trovarla più mite ed arrendevole. Desolato tuttavia il nostro Paese per le contese dei sediziosi Baroni che avevano indotto i Francesi a venirlo a travagliare con assai lunga, ostinata guerra, questi invasori finalmente avevano toccato una grande sconfitta , onde infingendosi bramosi di far la pace, per preliminari di questa chiesero una tregua, nell’ ingannevole disegno di acquistar tempo, affinchè ottenuti frattanto dei rinforzi di gente e danaro dalla Francia, fossero bene nello stato di ricominciar la guerra con più vigore. Ma sospettatasi la frode della loro domanda , venne rigettata; onde il Generale Piccinino raccolti gli avanzi del suo esercito sconfitto, e ricevuto ancora qualche scarso rinforzo accennò di volere espugnare Celano.
Questa nuova valse al giovane Conte la determinazione di svelare alla madre gli impegni da se contratti colla Marietta, non sapendo egli in tale stato di cose trovare altro adottabile partito. Nella certezza infatti che ben tosto tutto quel tratto di paese sarebbe campeggiato dal nemico, che avverrebbe di Marietta se la lasciasse così sola ed abbandonata nella indifesa casa del lago? D’altronde come introdurla nel suo castello, senza svelare alla Madre la condizione della stessa, e senza manifestare ai vassalli i suoi impegni con lei ? La stessa Contessa or nella necessità di avvalersi dei consigli, degli aiuti, dell’ opra di suo figlio, sembrava aver già deposto una parte di quella sua solita fierezza ed imperiosità. Il giovinetto dunque stimò non indugiare oltre ad aprirsi con la Madre, e colto un momento che questa trattenevasi seco in affettuosi e confidenziali discorsi, di punto in bianco tutto il suo segreto le svelò, ed infine gettandosele alle ginocchia la scongiurò di non volersi opporre alla sua felicità.
Lo intese sino alla fine la Signora di Celano conservando sempre il volto ugualmente imperturbabile; indi fattosi nuovamente sedere accanto il figliuolo, lo prese con modi tra severi e di persuasiva a tentare che deponesse pure il pensiero di macchiare l’alta nobiltà di sua famiglia con un parentado sì umile e svantaggioso. Ma dopo avere un pezzo combattuto il giovane con tali suoi argomenti, adattatosi già del nessun effetto degli stessi, licenziò quello da se, assicurandolo che dopo maturata bene la cosa, fra tre giorni gli darebbe una risposta definitiva.
Il seguente giorno non fu dato al Conte assentarsi dal Castello, stante le molteplici incombenze a lui fidate dalla madre. Ma come nel terzo dì si vide libero, senza indugio corse alla casa del Lago per comunicare all’amata fanciulla tutto l’occorsogli con la Contessa, e le speranze che aveva di aggiungere quanto prima l’ ottenimento di quanto ardentemente bramavano. Metteva egli appena il piede nel podere, che gli venne incontro il vecchio servo, sul cui volto disperato, abbattuto si leggeva volentieri il gravissimo affanno che gli angustiava il cuore.
–Che accadde a Marietta?-Fu la domanda onde il giovane turbato, ansioso l’abbordo. E l’altro:
— Me l’han rapita e portata via quegl’infami . . .
– Chi?. –
– Una frotta di scellerati ci è penetrata in casa questa notte, ed ha portata via la povera mia Padrona –
— Ma tu non sapevi dar l’allarme al Paese, o correre sul momento a darmene la nuova ?.
– Due di quei tristi mi han sostenuto in casa, e guardato fino all’ alba. Appena essi mi lasciarono son corso al lago per passarlo, ma Emidio si trovava al di là dell’ acqua. Ho quindi praticate delle indagini nei contorni per sorprendere alcun indizio; ma tutto è stato vano; ed ora non mi resta che morire,posto che nulla più m’ interessa alla terra –
Dando termine a queste parole il buon vecchio si abbandonava a tutti gli argomenti del più intenso dolore. Il Conte che era stato un pezzo silenzioso ed in pensieri , commosso dalle non equivoche dimostrazioni di quel fedele, gli strinse la mano, e gli accennò di seguirlo. Entrambi si diressero alla capanna del navalestro, ove trovarono costui che faceva colazione con la sua donna. Alle prime inchieste direttegli il vecchio barcaiolo non seppe tener sì fermo, che non dasse indizio di turbamento e confusione. Allora il Signore di Celano si mise a pressarlo più; e quello parte non sapendo resistere alle preghiere e minacce dello stesso, parte indotto dalla devozione ed affetto che sentiva per lui, gli confessò che la notte antecedente aveva traghettata al di là del lago la Marietta coi suoi rapitori i quali aveva riconosciuti tutti per servitori della Contessa, a cui nome essi gli avevano in giunto sotto pena d’incorrerne tutto lo sdegno a serbare il più assoluto silenzio.
Non volle sentir altro il giovane Conte, e fatta allestire sull’ istante la barchetta, rifece il cammino e tornò al Castello. Quivi si presentò senza indugio alla madre, e con rispettosi modi, ma fermi le chiese che avesse fatto della sua sposa. La Contessa che ad onta di tutte le precauzioni da se prese si aspettava di venire col figlio ad un tal punto, cercò sulle prime di tentarlo con risposte ed osservazioni evasive; ma com’ ella che di superbo animo era, ed intollerante, videsi stretta e pressata, non indugiò a trascorrere nelle sue solite maniere imperiose e dure. Però bramando l’ira sempre più crescente del giovanetto, gli diè ad intendere francamente che la Marietta di suo ordine era stata rapita, e tradotta in tal luogo, onde non uscirebbe, se non quando acconsentisse a togliersi in marito qualcuno dei suoi servi; e ciò in pena di aver saputo innalzare le sue mire fino al Conte di Celano, cui aveva fatto dimenticare mercè le sue arti e seduzioni i doveri impostigli dalla nobiltà del sangue e dalla obbedienza filiale. Tale risposta della Contessa valse, contro ogni sua aspettazione, a spingere l’ altro all’ estremo di corrisponderle con detti e modi alieni dal solito rispetto che usava dimostrarle. Ne fu punta sul vivo l’ altera donna avvezza a tiranneggiare la volontà del figliuolo, e trascorrendo sempre più nello sdegno, venne al punto di cacciarlo dal Castello, con ordine a lui di non mettervi più piede, ed ai suoi di vietargliene l’ingresso ogni qual volta si presentasse.
Metteva appena il giovane Conte fuori il tetto ove nacque,ed onde dalla stessa sua madre veniva sbandito, il suo piede , quando un doloroso pensiero lo fermò sotto quelle mura , nelle quali era sostenuta la povera Marietta. Quivi l’infelice sua sposa rimaneva nella piena balìa della donna altera e prepotente che ne aveva già fissato il destino. Che la giovinetta rimarrebbe ferma in serbargli la fede, era cosa di cui pur troppo egli era persuaso; ma qualora si venisse alla violenza, chi salverebbe la sventurata dall’ onta o dalla morte? Immerso in tali strazianti riflessioni, le braccia conserte al seno, gli occhi immoti al suolo rimaneva egli un bel pezzo, quando vicino a se udì in accento basso e marcato pronunziare tali parole:
–Taluno perde il suo tempo a pensare ai suoi danni, il quale ad un passo di qua potrebbe invocare vendicatori ed amici – Si scosse vivamente il giovane in udire queste voci, e voltosi a guardare dende gli erano sembrate partirsi, si avvide di uno straniero che ivi stavasi colle spalle appoggiate ad un barba. cane, e che in lui intendeva fisso lo sguardo. Quegli allora avanzandosi verso lo sconosciuto che si rimaneva tuttora impassibile nella suaccennata posizione, il richiese diuna spiegazione riguardo alle sue parole, ed allo straordinario intervento in affari che punto non lo riguardavano.
Lo straniero posto di fronte al Conte di Celano non si affrettò a rispondergli, quasi volesse lasciargli l’ agio di compiere l’attento e minuzioso esame che quegli di se faceva. Ed invero il modo nuovo ond’egli era apparso al giovane, mostrandosi a giorno delle angustie dello stesso , le sue fattezze non comuni, la strana foggia degli abiti scusavano la curiosità dell’altro a suo riguardo. Era un vecchio di alta e robusta persona con la capellatura e barba prolisse e canute: duri ed imperiosi n’erano i modi; gli sguardi penetranti e sagaci. Non si scopriva nelle sue vesti eleganza o ricercatezza, ma eran proprie ad aggiungergli dignità. Portava giustacuore e calzoni di color scuro uniforme, ed assai stretti secondo l’ uso del tempo, con un mantello e lungo ed ampio; il berretto n’era sormontato da una penna negra che ripiegavasi sul davanti fino ad ombreggiargli la fronte e le ciglia. Quando finalmente gli parve, così egli rispose alla fattagli domanda :
– In queste mura la Contessa di Celano ha nelle mani la sua vittima, cui farà scontar caro il delitto di averti dato ricovero ed un tetto, e là dall’altra banda del lago sono i Francesi che ad un tuo cenno verrebbero a farti Padrone del Castello onde fosti cacciato, e nel quale non si vuole che tu rientri, se non quando la tua sposa o sia morta o vituperata – Non finiva egli ancora da tali sue parole, che il Conte fuori di se per la rabbia gli si scagliava contro furibondo, gridandogli:
– O uomo o demone che tu si non ti vanterai di avermi nella sventura insultato. . . –
Ma l’altro, senza punto turbarsi rendeva vano quell’impeto del giovane,serrandogli le braccia tralle sue mani, come in una morsa di ferro. Poi lasciandolo libero, gli soggiungeva :
– Giovane! sapeva bene che tu sei sventurato; non già che la sventura ti avesse a tal segno turbato l’intelletto, che non sai più discernere tra gli amici ed i nemici –
Cui il Conte :
– Ma non tu forse mi suggerivi pocanzi di combattere contro mia Madre , e di unirmi coi nemici del mio Paese, per portare con essi il ferro ed il fuoco in quelle mura che chiudono le tombe degli Avi miei, e che mi videro nascere?–
-– E da quelle mura non fosti pocanzi tu vergognosamente cacciato?. tu che ne sei il vero padrone e Signore ! . Ed in quelle mura non sta per compirsi un atto d’ingiustizia, di prepotenza, d’iniquità, che solo in un modo può impedirsi ? O tu persisti ancora a chiamarmi demonio e nemico, dacchè ti suggerisco quell’unico partito che la tua stessa mente avrebbe dovuto consigliarti, se non fosse di soverchio conturbata dai guai ?–
Alle ultime parole dello sconosciuto più non rispose il Conte di Celano; ma tenendosi un pezzo silenzioso ed in pensieri, sembrò pesasse nell’ animo suo le ragioni ed i consigli straordinariamente proffertigli. Quegli frattanto intendeva nel giovane, senza distrarre da lui la sua attenzione; e quando alla fine gli parve indovinare che egli avesse già presa una risoluzione, gli soggiunse che qualora il volesse, prima di sera gli farebbe tenere un salvacondotto dal Capo supremo dei Francesi, perchè potesse recarsi nel campo a concertarsi con esso. Il giovane sconsigliato acconsentì ; e lo straniero sull’atto si dipartì da lui. Poche ore dopo tornava a lui col salvacondotto, e si faceva sua guida al campo dei Francesi,
Al primo assalto che il Piccinino coi suoi diedero alla Rocca di Celano, soccorsi dai consigli e dall’opera dello stesso Signore del Castello assediato ebbe luogo sotto gli occhi di entrambe le parti contendenti tale spettacolo tristissimo e contro natura, che non fu chi non ne inorridisse. Una donna fu veduta trascorrere impavida, minacciosa per tutti i luoghi ove più il periglio dominasse, animando cori espressioni e con fatti i difensori alla pugna, ed elevando al disopra di tutto quel frastuono la sua voce imperiosa. Era la Contessa di Celano la quale finalmente nulla badando al periglio ed alla morte ond’ era circondata, fermatasi su un breve spalto assai esposto alle offese del nemico, guardò con molta attenzione ed interesse tra le file degli assedianti, come a cercarvi qualche cosa. Breve però fu questo suo esame; che non durò a scorgere quello il quale cercava. Era il figlio suo.
Cui la donna chiamando ad alta voce per nome, mentre per una parte e per l’altra si sospendeva l’ armeggiare, dando ciascuno tutta la sua attenzione a quel caso nuovo ed inaudito, gli chiese con voce dura e di rampogna il motivo onde si fosse unito ai suoi nemici. Il giovanetto non mancò tosto di risponderle che lo faceva per toglierle dalle mani la sposa sua. E quella di rincontro con voce sempre più sdegnosa ed ironica– Non sia vero che duri tanta contesa per cosa sì poca; abbiti or ora la sposa tua, e vediamo se ancora resterai sdegnato contro tua Madre –Così dicendo, lasciò per alcuni momenti quel luogo ove tornò accompagnato dalla povera Marietta cui la dura Contessa traeva per mano, quasi trascinandola ; ed additando alla fanciulla suo figlio;
– Non tel diceva io che ti traeva per consegnarti al tuo sposo?–
Poi sempre più facendosi all’ orlo dello spalto e traendosi dietro la fanciulla per mano, cui ora ghermendo per ambo le braccia faceva passarsi avanti, come per renderla più visibile a suo figlio ed ai rimanenti assedianti che con grande ansietà e sospensione d’animo intendevano:
–Contino di Celano! gridò con voce di gioia selvaggia: eccoti la tua sposa –
E precipitò la fanciulla nel sottoposto fossato.
Un grido di orrore ed indignazione corrispose per ogni parte all’ atto barbaro, efferato della Contessa di Celano. L’assalto fu ripetuto con quella gagliardìa che dà il desiderio della vendetta, e durò fiero, accanito fino a sera; ma gli assediati incuorati dalla presenza della loro Signora che nulla curando de’ perigli andava di luogo in luogo eccitando i suoi, corrisposero al violento attacco con validissima difesa.
Quella donna sorprendente pareva che fosse rispettata dalla morte. Piovevano intorno a lei le saette, e le bombarde di cui l’inimico era fornito, le rovinavano le torri, ed apportavano ovunque morte e distruzione, ella frattanto si fermava impavida nei luoghi più esposti a dare gli ordini convenienti ; e guardando talora tra gli assedianti, ogni qualvolta le veniva fatto di discernere suo figlio che tutto quel giorno pugnò sempre trai primi, lo mostrava ai suoi, promettendo grandi ricompense a chi lo avesse morto con una saetta. ,
La notte sospese quell’ assalto. Allora il Contino si occupò ( non senza rischio ) a cercare nel fossato gli avanzi della sventurata Marietta; ma per quante diligenze facesse il dolente giovinetto restò deluso nelle sue vane ricerche, ed alla fine si ridusse al campo, trovandosi delle fatiche durate in quel giorno, e delle emozioni provate così estenuato, da non sapersi più reggere in piedi. Nè infatti veniva a capo di raggiungere la sua tenda, che a poca distanza dal campo cadeva rifinito e senza sentimento. Al risveglio che faceva si trovava su un letto, accanto al quale era seduto il misterioso straniero che lo aveva condotto nel campo dei Francesi. e che da quel momento egli non aveva più punto veduto. A costui che il richiedeva come si sentisse il giovanetto rispondeva togliendosi di letto e facendo atto di uscire. Lo sconosciuto però lo rattenne, e con un gesto tra benigno ed autorevole gli accennò di seguirlo. Traversarono insieme ed in silenzio varie camere, quando la Guida del Conte si fermò, ed a bassa voce disse al suo compagno:
–Giovanetto! in questa prossima stanza ove or metteremo il piede c’è cosa che molto t’interessa; ma io non posso introdurtici, se prima non ho la tua parola che ivi entrando, qualunque cosa si offra ai tuoi sguardi, ti rimarrai impassibile e silenzioso, e subito con me ne uscirai.
Il Conte assentì a tali patti, ed entrarono nella stanza. Al fioco lume di una lucerna posta in un angolo di quella camera si scernevano appena gli oggetti ivi trovavisi. Pure come i due sostarono alquanto sulla soglia i loro occhi si abituarono un pò più a quella tenue luce, ed andarono verso un letto posto in fondo alla stanza. Accanto al letto sedeva un vecchio il quale si avanzò verso i venuti. Il Contino lo conobbe; era l’antico servo della Marietta. Il quale al gesto significante dello straniero rispose a bassa voce la sola parola – Dorme –
Lo straniero allora trasse il giovanetto fin presso al letto, e gli additò una fanciulla che dormiva. Questi non valendo a contenere un primo impulso fu per gittarsi a comprendere nell’amplesso la dormente; ma l’ altro che stava in guardia ed in sospetto di qualche imprudenza per parte dello stesso, lo rattenne, e tosto, quasi a forza lo trasse con se fuori. Quando vennero nuovamente nella stanza onde si erano mossi, fatto prima invito al Conte di sedersi, così gli parlò:
– Vedi ? tu piangevi morta quella che a grande mio rischio salvai. Precipitata la poverina nel fossato, l’acqua torbida e limacciosa di esso ne attutì alquanto il violento effetto della caduta; ma vi sarebbe immancabilmente affogata, se non fossi stato io pronto a soccorrerla. Or mi giova dirti che la tua sposa a te non sia resa, finchè il Castello di Celano rimanga nelle mani della snaturata, micidiale Contessa. Io mi sento designato dalla Provvidenza per istrumento di vendetta e punizione alle molte iniquità di tua Madre. Ruggero di Celano!
io eseguirò scrupolosamente il mio mandato; e perchè ti giudico capace di non più curare il castigo di tua madre, posto che riabbi la sposa, sappi che questa sia da te disgiunta in eterno, se prima quella non paghi il fio di sue innumere scelleratezze ed iniquità –
Invano il giovanetto tentò smuovere il meraviglioso sconosciuto dal suo disegno avvalendosi di tutti gli argomenti di persuasione, di preghiera, di minaccia. Immobile come uno scoglio, contro cui invano si rompe la furia prepotente dell’ oceano, perseverò sempre nel suo proposito di punizione e vendetta, così ribattendo ogni parola di persuasione e preghiera; alle minacce poi con freddo sorriso di non curanza rispondeva facendo al Contino osservare la sua impotenza di mantenerle , non che l’ imprudenza di farne.
Avvenne che Ruggero stanco alla fine e molto indispettito si dipartiva dall’altro, dirigendosi al campo. Appena ivi metteva piede nella sua tenda gli veniva appreso che il Generalissimo aveva mandato in cerca di lui. Non era difficile indovinare perchè quegli lo volesse presso di se ; onde statosi alquanto a riflettere sul partito al quale si appiglierebbe,titubante ognora tra quanto gli suggeriva il dovere filiale, e quanto gli facevano tenere le minacce dell’incognito, s’ incamminò alla tenda del Piccinino, senza aver nulla deciso. Questi ricevutolo assai gentilmente non indugiò a confermare il Conte su quanto esso aveva immaginato gli proporrebbe. Il Duce dei francesi, dopo avere all’ altro dimostrata l’inutilità di nuovi attacchi, senza che questi venissero favoriti o da qualche intelligenza con quei di dentro o diretti ai punti più deboli o adatti a sorpresa, lo richiese di alcun suo consiglio. Cui il Giovane dopo breve esitanza rispondeva, non senza fare a se stesso uno sforzo visibile :
– Domani voi attaccherete per una banda il Castello; ed io mi proverò intanto con pochi a penetrarvi per altra via ad aprirvi le porte —
Non aggiunse altro a queste parole, e quasi pentendosi di averle proferite , si levò bruscamente, e si ritirò.
Il dì seguente appena l’ Alba incominciava con incerto chiarore a scernere gli oggetti dalle tenebre , si diede fiato a tutte le trombe , ed il Piccinino mosse con grande impeto l’ assalto al Castello di Celano. Quei di dentro non mancarono di opporre a tanto sforzo la più valida difesa e resistenza. Così di pari valore adoprandosi per una parte e per l’altra, si durò fin sul vespro; e già gli assediati pel vantaggio di loro posizione avevano cagionato tal danno al nemico,che già già questo si mostrava sulle mosse di ritirarsi dalla oppugnazione; quando un duplice grido di spavento e di minaccia venne udito nel forte, e poco stante una frotta di fuggenti fi veduta, la quale colla spada alle reni era incalzata dal nemico già fatto padrone della Rocca. Il coraggio, siccome il timore s’ insinuano volentieri coll’ esempio consenzievole ; quindi siccome finora quei forti si erano difesi con un valore senza pari, così al vedere i lamentevoli e disperate, al vedersi gli assalitori alle spalle, invasi da contagioso, panico timore gettaron l’armi, e si resero a mercè. Poco dopo il drappello penetrato nella rocca apriva ai suòi compagni di fuori le porte, i quali entravano ad insignorirsi della stessa. Questa volta i Francesi furono moderati nella vittoria. Il loro Generale aveva pattuito col Conte di Celano di consegnargli il Castello, salvandolo dal saccheggio e dalla strage; e questi invece gli consegnerebbe tutto l’oro e l’argento trovato nello stesso, e poi manterrebbe la rocca a devozione dei Francesi. Serbatesi le condizioni per una parte e per l’altra, il giorno appresso toglievasi di là il Piccinino coi suoi. Il Conte intanto non appena s’impadroniva della rocca, che si muoveva in traccia di sua madre. Ma per quanto ovunque ne cercasse e ne richiedesse ad ognuno non ne veniva a capo, venendogli sol questo riferito che la Contessa dal primo irrompere dei nemici nel Castello non era stata punto più veduta. Seguiva ancora con più premura il giovinetto le sue ricerche, quando gli venne innanzi il . fatale sconosciuto che tanta parte aveva presa in quegli avvenimenti. Costui col suo solito atteggiamento freddo e severo prese l’altro per mano e lo trasse con se. Lo straniero incedeva pei vari, intrigati corridoi del Forte, attraversando appartamenti, salendo scale, or girandosi a destra, ora a manca, con tale deliberata franchezza che ben mostrava aver egli la grande conoscenza di quei luoghi. Venuti alla fine nelle stanze della Contessa, dopo averle tutte attraversate, quando furono nel ultima che era una cameretta oscura, e per solito abbandonata, l’uomo misterioso brancolando colle mani nel muro, come se cercasse alcuna cosa, fece scattare una molla , ed apparve un adito , pel quale entrati in un lungo corridoio, alla fine di questo rinvennero una scala. Scesero alcuni scalini che mettevano ad una porta chiusa con grosso catenaccio. Il compagno del Conte si tolse allora di petto una chiave, ed aperto l’uscio, spinse innanzi il giovane il quale si trovò al cospetto di sua madre. Questa con voce pacata, ma colma d’ immensa rampogna disse al figlio:
–Il signor di Celano non si fida dei suoi carcerieri, e viene ad accertarsi che i suoi prigionieri non gli sfuggano –Cui il giovanetto, mettendo in oblio tutti i danni e patimenti toccatigli per parte di quella donna, e gettandosele alle ginocchia :
– Perdono, o madre; tu non fosti giammai prigioniera, nè qua certamente di mio ordine ti trassero.
– Certo che di mia volontà non vi venni –
A queste parole il giovane prendendo la madre per braccio.
– Andiamo, le diceva. Saprò chi ebbe tanto ardire di mettere le mani sulla Contessa di Celano, per farglielo a caro scontare
–lo fui quello – rispondeva con accento marcato e di sfida lo straniero che rimasto sulla soglia osservatore di quanto erasi passato tra madre e figlio, or venne avanti nella camera fin presso a quei due. Quindi soggiungeva:
– Conte di Celano! Hai tu posta in oblio la mia promessa?
Non ti diss’ io che questa donna fu rea avanti a Dio ed agli uomini; e che io sono lo strumento della vendetta di quello e di questi?.. O credi tu che ti abbia consigliato ad opra che costò tanto sangue, per fermarmi nel meglio e condiscendere alla tua debolezza? . –
– Ma tu che pretendi, o uomo fatale alla mia pace? Volesti armare il figlio contro la madre; volesti farmi portare la strage e la rovina in quello stesso tetto ove nacqui; volesti dannare questo cuore agli eterni rimorsi della colpa e dell’infamia; che cerchi dunque di vantaggio?–
–Che cerco ?… che costei non sia più nello stato di nuocere alla umanità, e che pianga in questo stesso carcere le sue colpe orrende, innumerevoli, ove altri innocenti piansero senza colpa, ove altre vittime della prepotenza e dei vizi di questa donna logorarono la vita nel dolore, ove pochi giorni fa la tua sposa medesima era tormentata, insidiata, minacciata… –
— Ma tu chi sei, o uomo inesorabile quanto il destino? la cui voce mi fa tremare, senza che me ne sappia rendere ragione, e mi rapisce in epoche lontane alla ricordanza di tristi avvenimenti?.
— Non ora il saprai, o donna; che mi giova aggiungerti il tormento dei dubbi, il quale è peggiore di qualunque danno a chi pesa sulla coscienza il rimorso del delitto. Pur verrà il momento in cui a te mi svelerò; allora, forse, desidererai non avermi mai chiesto chi sia –
Poi volgendosi al Conte con voce alquanto raddolcita e commossa
–Ruggero, gli diceva, io m’ingannava nel crederti tal figlio di tal madre; però ti dispenso dal duro mandato d’ incrudelire verso la stessa. Ma la pietà filiale non deve farti cieco sui tuoi interessi, nè esporti ad estrema rovina, lasciando a costei tutto il potere di nuocerti. Giova che la Contessa di Celano avendo nel tuo castello tutti i riguardi a lei dovuti per te..non s’immischi menomamente nel comando, e goda soltanto di tale libertà, che non sia più nel caso di nuocere a chicchessia. Forse gran danno ne verrà da tanta indulgenza ch’io ti propongo; ma a tuo riguardo mi piace farti tali condizioni cui per niente potrai tu opporti–
Con queste parole terminò il singolare colloquio fra quei tre, essendosi lo sconosciuto affrettato ad allontanarsi. Il Conte allora trasse la Madre nelle sue stanze, ove lasciatala, si mosse nuovamente in cerca di quello nelle cui mani trovavasi la sua sposa. Mentre ne andava in traccia inutilmente da un pezzo, s’ imbattè nel vecchio servo della Marietta, il quale lo ricolmò di giubilo indicibile, invitandolo a seguirlo dalla Marietta che or ora in una lettiga era stata portata nel Castello. Si rese egli tosto all’invito, e con lui si recò nelle sue stanze ove dopo tanto provò il supremo contento di bearsi nell’ amplesso di quella travagliata dalla quale sì lungamente era stato disgiunto. Appena che l’affetto soverchiante ebbe avuto uno sfogo per quei teneri abbracci e per la copia delle lacrime sparse da entrambi, si ricercarono e ricambiarono a vicenda la storia dei loro mali dal momento che eranostati separati.
La giovinetta raccontò allo sposo il suo ratto in quella notte fatale , e siccome trascinata nel Castello aveva dovuto subire la presenza della Contessa sdegnata e minacciosa, ed indi la solitudine e gli orrori di una prigione. Appresso si era tentato d’indurla a dar la mano di sposa ad un tal uomo sconosciuto di sinistro aspetto, e di modi brutali, non mancandosi di porre in opra tutti gli argomenti della persuasione, delle blandizie e della violenza la quale non avrebbe, forse, mancato di successo, senza l’invitto animo della giovane. Finalmente stanchi degl’ inutili tentativi; sembrava l’avessero dimenticata, o meglio condannata a morire di fame, non essendo apparso più alcuno nella sua carcere, nè apportandosele cibo da due giorni. E già la sventurata si preparava al suo acerbo destino, più contenta di morire in pace, che di vivere tra tormenti, ansie e terrori, quando si venne a trarla di quel carcere, e trascinata su gli spalti del Castello per mano della Contessa venne indi precipitata.
Ristabilito l’ ordine, e tornata la tranquillità nel Castello di Celano, il Conte si affrettò a dare alla Marietta quella riparazione che stava in lui dei mali sofferti dalla giovinetta. Vennero dunque con solennità celebrate le loro nozze ; e quei due sventurati poterono alla fine numerare giorni più lieti ed avventurosi.
La Contessa intanto conscia dei suoi torti verso il figlio, e memore delle parole minacciose e di condanna del misterioso incognito traeva la sua vita nel massimo isolamento, non uscendo giammai dalle sue stanze, nè comunicando con chicches sia.
Suo figlio non trascurava alcuno dei doveri verso la stessa , visitandola spesso, e parlandole con rispetto, e schivando ogni menoma allusione al passato. Egli studiava di indovinarne e prevenirne i desideri, circondandola delle più affettuose cure, e procurando di non farla pur accorgere di non essere più la Signora del luogo.
Così il tutto si passava in calma nel Castello di Celano, ove sembrava tornata con la pace una tal lieta e felice esistenza che per lo avanti non erasi goduta giammai. Pur ciò non doveva molto durare, non essendo tale calma che un’ apparenza, mentre in quelle mura stesse c’era chi ne tramava il danno e la rovina.
Una notte dunque , mentre tutti nel Castello erano in preda al sonno più profondo, una donna tutta ammantata ne trascorreva siccome un fantasma le gallerie, i corridoi e gli anditi, finchè giunta alla parte ov’era alloggiata la servitù, fermatasi avanti una delle tante porte ivi disposte, picchiò leggermente con la nocca della mano. Non indugiò guari l’abitante di quella camera ad aprirne la porta con cautela, la quale fu ben chiusa nell’egual modo dietro le spalle di colei che vi entrava. Il padrone della meschina cameruccia era un uomo di su la cinquantina, alto, robusto, di viso assai comune ed insignificante , dal naso assai prominente e grosso e più rubicondo del restante del volto, ciocchè evidentemente accusava la passione laida e dominante della ubriachezza e della orgia. Questi come vide entrar la donna le presentò l’unica sedia trovatasi in quel luogo, e le si mise innanzi in atto ossequioso, quasi ad attenderne i comandi. La venuta appena sedutasi si sbarazzò alquanto del manto onde era tutta imbacuccata; e mostrò il suo viso. Era la Contessa di Celano che dopo breve pausa così parlò al servo :
—Trincallegro, vengo a dimostrarti che la tua antica padrona, ad onta dei suoi mali, sa ricordarsi degli altri. Vo’ dunque che mi dica se sei al presente felice sotto il Signore di Celano, come lo eri al tempo della signoria di sua madre –
Avanti di rispondere l’ interpellato si volse in giro per la stanza, quasi temendo di essere inteso da chi non avrebbe voluto; poi enfiando enormemente le labbra e le gote , e cacciando ad una volta uno sbruffo ed un sospirone diceva:
– Eh, Madonna ! i giovani signori hanno poco sangue coi servi vecchi, e li mettono volentieri tralle robe di scarto –
–Come a dire ?
—Che il vecchio soprintendente di Celano conta più nulla, e che mentre certi senza barba comandano a bacchetta , e menano lieta vita in tinello ed in cantina, il povero Trincallegro si muore di fame e di sete, ed è felice quando può avere un osso di prosciutto industriosamente scarnato, ed una bottiglia di vino tre volte battezzato –
–Certo che in altri tempi tu stavi molto meglio –
– Quelli erano tempi d’oro, Madonna. Se tornassero, non mi farei più scappare dalle mani le chiavi del tinello e della cantina.
Qui il dialogo fu sospeso. La Contessa intanto fissando i suoi sguardi sull’antico servo, sembrava maturasse qualche importante risoluzione,della quale non sapesse ancora decidersi a scegliere colui per istrumento ed esecutore. Alla fine toltasi da sedere, e fattasi assai dappresso al medesimo ,
–Trincallegro, gli disse, quei tempi possono tornare, e torneranno senza fallo , se tu avrai tanta discrezione e lealtà, da eseguire un mio segretissimo messaggio–
E vedendo che l’altro tutto intento in lei in aspettazione che si spiegasse non proferiva una parola, soggiungeva:
– Non lungi di qua è il campo dei papali, ove fra gli altri generali avvi un mio amicissimo Napoleone Orsino. Domani, se tu vorrai, ti sarà agevole andarvi a recare una mia lettera, ed essere di ritorno nel castello avanti sera, sicchè nessun sospetto cagionerà la tua breve assenza, della quale, forse, persona non si accorgerà–
– Dov’è la lettera?– rispose il servo, dopo avere alquanto pensato.
–Eccotela; ed eccoti questo oro per arra della mia gratitudine. Quando l’impresa riesca a buon fine non ti pentirai di aver prestato servigio alla tua antica padrona–
E consegnatagli la lettera con una borsa, rimbacuccandosi tutta nel manto, uscì di quella stanza.
In quella lettera la Contessa scongiurava l’Orsino che venisse coi suoi soldati a liberarla dalla dura condizione in cui la teneva suo figlio, aggiungendo che lo stesso, oltre a tenerla affatto priva di libertà, facevala mancare di ogni cosa più necessaria alla vita, mostrando affrettarne la fine, onde togliersela davanti.
La notte seguente alla stess’ora, e con le medesime precauzioni la trista donna tornava alla stanza di Trincallegro, ansiosa di conoscere l’effetto del suo macchinamento. L’ Orsino le rispondeva confortandola a tollerare anche un poco i maltrattamenti di suo figlio, finchè gli venissero le disposizioni su tal faccenda dal Papa, cui aveva all’ istante rimessa la lettera di lei. Men che tanto bastava alla Contessa per assicurarsi di aver già disposta la sua vendetta; onde tutta lieta del successo si diede ad attendere con impazienza gli eventi. Nè questi tardavano a svilupparsi; che non era ancor passato un mese dacchè quelle pratiche si cominciarono, mentre nel Castello vivevasi nella più gran pace e sicurezza, un mattino veniva appreso al Conte i papali capitanati dall’ Orsino si avanzavano ad invadere le sue terre. A tal nuova il Signore di Celano si affrettò a mandare nessaggi al Generale Pontificio, richiedendolo del motivo di tal atto ostile, per non aver egli in cosa alcuna leso il Sommo Pontefice. Gli fu risposto che la ragione per cui il Principe gli muoveva contro le armi era l’aver inteso della sua inumanità e barbarie verso la Contessa sua madre, e dei crudeli trattamenti che usava seco lei. Stupì il giovane all’ intendere tale calunniosa imputazione, e portatosi all’istante presso la madre, le partecipò la risposta ottenuta. Questa che dottissima era, non altrimenti che la più parte delle donne, nell’arte d’ infingersi, mostrò grande meraviglia e stupore delle cose che apprendeva. Onde il figlio credendo alle ingannevoli espressioni di lei, la pregò di smentire con una sua lettera al Papa le calunnie addebitategli. La donna stimò di contentare suo figlio,sicura che la sua lettera sarebbe interpretata come effetto della violenza fattale per ottenerla. Nè si ingannò; poichè il Papa faceva rispondere al Conte che allora crederebbe libera la Contessa, quando fosse fuori del Castello di Celano, e venisse ella di persona in sua presenza a smentire le imputazioni a lui fatte; ma fintanto che la madre seco dimorerebbe, non si desisterebbe dal proseguirgli la guerra, e torgli le Castella.
Non era questa una vana minaccia, perchè l’Orsino fece alla stessa seguire immediatamente l’effetto conforme, recando guerra accanita al Conte, e travagliandone il Contado, e facendosi padrone di molte Castella, fra cui la fortezza di Ortucchio luogo di molta importanza , e che posto appresso al lago Fucino era come l’antemurale di Celano.
Allora il giovane Signore di Celano si portò dalla madre ad indurla che andasse presso il Papa, per tentare di placarne lo sdegno, testimoniando in favore di se. Cui la donna facendo mostra di aderire molto volentieri, tutto promise, ed il mattino seguente si mise in via.
Erano passati alcuni giorni dacchè la Contessa aveva lasciato il Castello di Celano, il cui Signore attendeva con somma ansietà l’ esito di tal messaggio. L’esercito Papale frattanto aveva desistito delle sue ostilità, rimanendo accampato alla vista del Forte in attenzione anch’esso dell’ esito di quella pratica. Una mattina finalmente venivano corrieri da Roma portanti le decisioni del Papa, le quali ben presto dall’Orsino si partecipavano al Conte. Queste erano che il Signore di Celano dovesse immediatamente consegnare al Generale Pontificio il Castello, ed egli stesso mettersi nelle mani del Papa, rendendosi a mercè. Figuratevi come fossero accolte proposizioni sì dure. ll Conte rispose indignato che si difenderebbe fino a che la spada non gli cadesse di mano, e che allora cederebbe il suo Castello, quando le rovine di esso opprimessero il suo cadavere. Sull’ istante dunque le ostilità vennero riprese,e per una parte e per altra ebbe luogo il più accanito attacco e la più valida difesa. Così durarono le cose per più dì; e già si era certi al di dentro di rintuzzare con buon esito alla lunga lo sforzo degli assedianti i quali prendevano ben pure la molta noia di tanto danno e resistenza, quando una sera, mentre il Conte andava secondo il suo solito ispezionando tutti i punti del Castello, vide apparirsi innanzi lo sconosciuto straniero che egli più non aveva veduto da quella notte memorabile. Al saluto ed alle domande del giovane signore ei parve non far caso, proferendo cupamente, e qual se parlasse ase stesso, queste parole:
– Che vale la vigilanza contro i nemici, quando gli amici ci tradiscono?–
Invano Ruggero chiese al vecchio la spiegazione di un accenno così allarmante;questo si serbò costantemente in silenzio, tenendo dietro al primo. In questo vennero sui merli, donde si dominava pienamente su tutti i luoghi circostanti. Quei due di concerto abbassarono i loro occhi sul campo sottoposto degli assedianti, del quale essi vedevano i lumi, ed intendevano finanche il confuso mormorar delle voci.
Dopo essere stati un pezzo silenziosi, intenti a tale spettacolo, lo sconosciuto, additando con la mano il campo, disse all’altro :
— Tutti quei soldati domani saranno nel Castello; il cui Signore se ama schivare a se ed alla sua sposa l’onta, le catene, le umiliazioni, non deve tardare a mettersi in sicuro con la fuga.
A questa tremenda rivelazione di quell’ uomo misterioso non sapendo accomodarsi il Giovane, rispondeva :
– Ma le armi non sono ancora cadute di mano a’miei; e quei soldati dovran combattere prima di farsi padroni del Castello –
—Nobile giovanetto! tu credi al valore dei tuoi; ed al tradimento non credi ?. Seguimi dunque dove toccherai con mano la tua imminente rovina; poco tempo ci avanza, e uopo è che tu ti convinca e ti salvi –
Ciò detto trasse con se il Conte in alcune stanze remote, in una delle quali entrati si travestirono egualmente e camuffarono in tal guisa che era impossibile riconoscerli. Allora il vecchio, raccomandato al suo compagno di usare la massima prudenza e discretezza, e di osservare la più assoluta impassibilità e silenzio nel luogo ove il trarrebbe, lo condusse per un labirinto di giri e di vie che il giovanetto affatto ignorava, nei sotterranei del Castello. Ivi era a guardia una sentinella che volle loro impedire l’ avanzarsi, ma lo sconosciuto proferì tal motto , per cui vennero ammessi. Dopo aver girato alquanto per quei tortuosi sotterranei fiocamente rischiarati da alcune fiaccole disposte di distanza in distanza per le pareti, pervennero in ultimo ad una bassa porta, pei cui fessi scappavano dei raggi di luce, ed onde giungeva fino a loro il mormorare di molte voci. Indi entrarono in un vasto camerone nel quale era radunata tal numerosa assemblea, che i due venuti ultimi non furono osservati. Vi erano molti guerrieri che agevolmente si comprendevano per Papali, e con questi immischiati degli altri che portavano lo stesso travestimento dello sconosciuto e del Conte, salvo che le persone di quelli potevansi raffigurare, non avendo il capo ed il viso camuffato. Con sorpresa conobbe in essi il giovane Conte la maggior parte dei suoi capitani, e ben tosto ancora dalle loro parole lo sciagurato motivo onde ivi eransi recati, cioè la tradizione del Castello. Ma non passò guari, ed eccoti un generale commovimento si aprì in tutti quegli assembrati, e due nuovi personaggi farsi avanti dalla parte dei sotterranei opposta a quella per la quale ivi erano giunti i nostri due. Erano una donna ed un uomo. Il Conte con tutti gli altri conobbe quest’ultimo pel Generale dei Papali; ma quale non fu la sua meraviglia nel raffigurar l’ altra, com’ ella si sbarazzò del manto in cui tutta celavasi ?
Era la Contessa di Celano la quale come giunse in mezzo a coloro, e corrispose al loro saluto, parlò a quell’Assemblea dei torti di suo figlio con lei, del segreto messaggio mandato da prima al Duca Orsino, della sua stessa andata dinanzi il Papa,e della costui condanna contro Ruggero di Celano il quale veniva privato di ogni Signoria , e destinato a finire i suoi giorni in una prigione, egualmente che la druda cui egli aveva sposato contro la volontà di sua madre. Aggiunse a tutto questo che per non trarre in lungo l’assedio del Castello, e per francare gli abitanti, non che i difensori da un meritato, tremendo castigo, era necessario che senza alcuna dilazione questi si facessero un merito di rassegnarle la rocca, dandole nelle mani il figlio e la sua donna.
Dopo la Contessa di Celano parlò l’ Orsino , confirmando quant’ ella aveva asserito , ed aggiungendo insinuazioni e minacce, perchè subito si venisse alla dedizione della rocca. Ma di consigli e minacce non era uopo, giacchè il mal seme dei traditori fu sempre abbondevole e codardo in ogni tempo. I capitani dunque della rocca ivi presenti risposero che non bramavano altro meglio di riacquistare l’antica loro Signora, dandole un attestato di loro attaccamento e devozione; che però il mattino seguente venissero pure francamente all’assalto i Papali, e non troverebbero alcuna resistenza, anzi si aprirebbero loro le porte, ed avrebbero senza colpo ferire il Castello ed il Signore di esso.
Combinato così l’iniquo tradimento, i Papali e quei di dentro per diversa via si andavano ritirando mano mano, quando il nostro sconosciuto si fece col suo compagno avanti alla Contessa ed all’ Orsino che rimasti ivi soli si accingevano anch’essi a lasciare quel luogo. Come la donna il raffigurò si divenne pallida come un bianco lino, e provò tale emozione che mal reggendosi in piedi si pose nuovamente a sedere. Il Duce dei Papali conobbe anch’egli colui, e punto non avvedendosi della impressione che la sua comparsa aveva fatto nell’animo della Contessa, gli stese amichevolmente la destra dicendogli. –Messere, mi è caro vedervi tornato di Roma. Avete a comunicarmi qualche ordine del Santo Padre?–
Cui l’altro:
– Ho un dispaccio per voi. Ma prima di consegnarvelo m’è uopo dir qualche parola a questa donna
E senza attendere dall’ altro risposta, facendosi ancora alla Contessa più vicino
–Madonna, le disse, ora potete chiamarvi appieno felice,che avete in mano la vostra vendetta e la distruzione di vostro figlio –
– Mio figlio mancò di rispetto e di obbedienza alla madre; mi combattè, mi tenne prigione, mi maltrattò… –
A queste parole si fece innanzi il compagno dello sconosciuto, che finora erasi tenuto indietro da parte, e scoprendosi,
–Madre, le disse, non mentire innanzi a Dio ed agli uomini. Tu non fosti giammai mia prigioniera, nè da me maltrattata. Se così fosse, non ti avrei mandata io stesso al Papa a perorare la mia causa…
– Dove si recò a fare la tua rovina, o Giovanetto sconsiderato. Non te diceva io che bisognava porre questa donna in stato di nuocere più a nessuno?
Poi volto nuovamente alla Contessa lo sconosciuto soggiungeva con accento di amarissimo sarcasmo:
– Tu dici che tuo figlio è colpevole di aver impalmata tal giovinetta che tu sdegnavi per nuora. Da quando in qua la Contessa di Celano è sì austera? O ella ha già dimenticato di essersi fuggita dal suo primo marito per sposarne con adulteri, illegittimi legami un altro? –
A queste tremende parole che rivelavano colpe sì vituperevoli della Contessa, ella sollevò il capo superbamente, e con voce sdegnosa rispose:
–Le leggi umane e divine mi consentivano di lasciare un marito inetto al matrimonio, ed io lo feci –
– Invano tu t’infingi, o donna, con chi ne sa quanto te. Il fatto smentisce la tua calunnia, poichè il tuo primo marito ebbe poscia da altra donna più figli –
Ora la Contessa perde del tutto la sua baldanza, e chinando il capo per la gran confusione e vergogna, mormorò con voce, quasi, indistinta:
–Chi sarà costui, al quale nulla si cela, e che mi viene innanzi con le tremende rivelazioni di segreti ch’io credeva custoditi dalla Tomba? –
– Chi son io?. me cercasti altra volta, e ti promisi che a tuo danno mi ti svelerei un giorno. Orti mantengo la promessa–
Ciò dicendo strappassi la barba e capellatura posticce, ed avvicinandosi anche più alla Contessa, e modulando altrimenti la sua voce,
– Mi conosci tu ora? – le disse.
–Eduardo!– esclamò la Contessa, dilatando le pupille spaventate,quasi ad accertarsi della realtà di tale apparizione, cui non avrebbe voluto credere.
– Appunto– rispose l’ altro con tuono freddo ed ironico; poi tosto ripigliava:
– Eduardo, il marito da cui tu ti fuggisti per andarne in cerca di altri adulteri abbracciamenti. Il quale se sappia vendicarsi, ascoltalo da quanto fece per prepararti questi supremi momenti. Io vissi due anni confuso trai tuoi servi, per sorprendere ogni tuo segreto, e nuocerti a suo tempo. Io ti volsi contro il figlio, additandogli il mezzo di salvare dalle tue mani la sposa.
Io ti segui instancabile fino ai piedi del Papa, ove invece di perorare la causa di tuo figlio, ne
promovesti la rovina. E quando già tu ti credi di aver prospera ogni cosa, e di recarti il Castello nelle mani, e tener tuo prigioniero costui, io ti tolgo ogni cosa, e ti apprendo che questo dominio a te più non appartiene, e che Ruggero di Celano con la sua donna sfuggono dalle tue mani–
Qui egli si volgeva all’Orsino, stendendogli un piego dal quale pendevano i sigilli della Chiesa,
e gli diceva:
– Eccovi i dispacci consegnatimi dal Papa —
L’Orsino riceveva la carta cui dopo aver letta da solo, rileggeva ad alta voce. Essa conteneva le disposizioni del Papa riguardo al Castello di Celano e suo contado, di cui veniva spogliata la Contessa e suoi figli, e data l’investitura ad Antonio Piccolomini suo Nipote. Dopo la qual lettura il terribile Eduardo gettato un ultimo sguardo di trionfo e dispregio sulla donna trasandata, abbattuta da tali colpi portatile, si tolse di là traendosi appresso lo sventurato Conte che lo seguiva trasognato, e poco cosciente di quello che facesse.
Rivenuti nel Castello, trasse il giovane alle stanze dello stesso, ov’era la Marietta, e lo consigliò a non perdere un momento ad uscire con esso dal Forte, se non voleva restar prigione ed esposto al risentimento del Papa che assai era sdegnato con lui per opera della madre.
Non eravi alternativa ; onde lo sventurato Conte di Celano, dopo brevi, affrettati preparativi, lasciava con la sposa per la seconda volta quel Castello, affidandosi in tutto a colui che erasi esibito di ridurli in salvo.
Con cavalli che trovarono approntati poco discosto dal Castello i nostri fuggitivi andarono tutta la notte , seguendo la loro guida. Il mattino, seguente si fermarono sol breve spazio in un bosco, e tosto dopo si rimisero in cammino fino à sera. Sul far della notte capitarono ad un tristo casolare, unica abitazione trovata nel giro di più miglia in quel paese selvaggio ed abbandonato. Non senza gran difficoltà riuscirono ad ottenere ospitalità dagli abitanti di quella casa, che pieni di diffidenza, tra l’assordante concerto di stizzosi urli canini procuravano malagevolmente d’ intendersi con quei di fuori. Finalmente all’uggioso latrare dei mastini successe alquanta tregua, e venne ad aprire la porta un uomo di atletica statura, di modi duri, e di cera per nulla rassicurante. Vestiva egli una giubba turchina con due brache assai strette di color marrone, quali oltrepassavano di poco il ginocchio; aveva calzette assai grossolane e screziate di turchino, di rosso e di bianco, ed una specie di sandali di cuoio che gli inviluppavano il piede e parte della gamba a guisa di coturni, e raccomandati e stretti con corregge parimente di cuoio. Intorno intorno alla vita a reggere le brache aveva una larghissima fascia di color verde vivacissimo, ed in capo un berrettino bianco terminante in punta conica, ed a questa attaccatovi un fiocchetto. Il nostri furono introdotti in una camera assai lurida, le cui pareti ovunque erano annerite dal fumo, ed il pavimento ingombro di spazzatura. Poverissima era la mobilia di quella stanza, consistente in alcune panche di legno, in una tavolaccia tutta sudicia e tarlata, in alquanti vasi di terra e di legno, ed in qualche arnese rusticale. In fondo ardeva un bel fuoco in uno spazioso camino, presso a cui stava seduto da una banda un donnone che filava, e dall’altra accoccolato a terra un mostro che teneva il mezzo tra l’umano ed il ferino, a ciascuna delle due specie affatto inferiore. Figuratevi rinchiuso in un abito a foggia di sacco un ammasso di ossa e pelli e carni disarticolate, e da questo sacco pendenti due lunghissime braccia capaci sì di moto, ma sembranti non aver relazione nè lega con quel tristo corpo, a cui anche per opera d’incanto si ve deva sovrapposto un capo umano oblungo, sproporzionato, dalla bocca larghissima, dalle orecchie enormi, dagli occhi piccoli e vivaci di quella vivacità che hanno gli sguardi delle monne e scimmie più petulanti e maliziose. Due altre creature viventi godevano ancora il beneficio di quel fuoco; erano i due mastini i cui latrati pocanzi s’intendevano; i quali guardavano ora con la coda dell’ occhio sanguigno, infuocato i forestieri, ma memori della ricevuta lezione si rimanevano tranquilli. Raccomandati al loro ospite i cavalli, vennero i tre a sedersi presso il fuoco, ove la povera Marietta tra la tema, il ribrezzo e la compassione non distaccava punto l’ occhio dal mostro, che aveva di fronte. Questo al vedere i sopraggiunti li ri guardò con una intensa attenzione e sorpresa che tratto tratto manifestava con grida inarticolate, selvagge, e col battere delle palme, e coi moti leziosi degli occhi e del capo. Finalmente gettandosi a terra col puntare al suolo le mani , e saltellando a sbalzi non altrimenti che un rospo, e così traendosi appresso la restante porzione egra e sformata del misero corpo andò ad accoccolarsi presso la giovane forastiera, non discostando più gli sguardi da essa, e dando tutti gli argomenti del contento che traeva da tale sua attenta, stupida contemplazione. Infelice idiota gli aveva negato la natura il senno, la forma e la più parte delle potenze animali; ma non gli aveva tolto il sentimento del bello, ed il trasporto per esso.
I fuggitivi si dovettero accontentare della povera cena loro offerta dai loro ospiti che cedettero benanche il loro meschino letto alla Marietta la quale vi si gettò tutta vestita a carpirvi qualche breve ora di sonno, mentre il Conte ed il vecchio si rimasero tutta notte presso il fuoco. Nè appena l’alba spuntava, che ringraziati e compensati largamente dell’ospitalità i padroni del casolare, si rimisero in cammino, traversando tutto quel dì luoghi montuosi e solitari. Ebbero ricovero la notte da un Pastore, dal quale il giorno appresso accommiatatisi , camminarono ancora fino a notte, e pervennero alle falde di altissimo monte, ove si fermarono in una casina che si specchiava in un lago. Con gran sorpresa del Conte e della sposa si presentò loro avanti una vecchia loro conoscenza che si dava tutto il sembiante di far con essi gli onori della casa. Era l’antico servo della Marietta, il quale richiesto dagli stupiti suoi ospiti come là si trovasse , rispondeva sorridendo che era ai servigi dei Padroni di quella casa, e deludendo ogni ulteriore domanda dei due giovani, li regalava e forniva di tutte le cure e rinfreschi di che potessero avere bisogno stanchi viaggiatori dopo sì lungo faticoso ed affrettato cammino.
Al mattino seguente il Conte con la sua sposa dopo fatta la colazione alla quale con loro sorpresa non intervenne il generoso che avevali salvati, si arresero all’invito dell’antico servo che loro propose di visitare il podere annesso a quell’amena casina. Nulla vi era di più incantevole e delizioso. Un prato piacevolissimo su cui pascevano una vacca ed un branco di pecore; un boschetto di piante ombrose, secolari, i cui silenzi non erano turbati che dal canto del tordo, lieto e vibrato, come un inno da quell’uccello intonato per la imminente partenza, dai fischi del merlo che imprende i suoi amori, dal grido stridulo scordante della gazza irrequieta, e dal lontano mormorare del torrente che tien bordone agli svariati canti dei cento altri abitatori della foresta; un giardino di piante fruttifere lieto di fiori olezzanti e belli a vedersi; un campo la cui erba alta e verde annunzia le future dovizie della messe abbondanti. Dopo aver visitate ed ammirate tante soavi, pacifiche bellezze, i due giovani fermandosi alla fine, e mettendo, qual di consenso, un sospiro ,
–Ahi! esclamarono; quanta felicità può godersi sulla terra, senza esser padroni di Castelli e Città ! –
Sorrise con una espressione di non celato contento il servo a quella esclamazione. Cui la Marietta domandò chi fosse il fortunato possessore di quella casina e di quel podere.
–Or ora il saprete, rispondeva il vecchio ; e come rimetterete il piede ove passaste la notte, sarete a giorno di tutto – Immaginatevi se la curiosità affrettasse i due giovani verso il luogo ove si promettevano venir a capo di scoprire un tal mistero. lnfatti come entravano nella stanza in cui avevano fatto colazione, il vecchio lasciati li ivi soli per poco , tornò portando nelle mani una lettera che consegnò al Conte. Questi apertala tosto, la percorse, dando i segni dal massimo stupore; indi ad alta voce la lesse. Era di colui che si era fatto guida dei due giovani fino a quella casina, e che scriveva loro così:
« Chiamato dalla Provvidenza a punire i delitti della Contessa di Celano, ho adempiuto il mio mandato, spezzandone la potenza e distruggendola affatto. Ma nella vendetta e punizione del colpevole non dovevano involgersi gl’innocenti; epperò io vi ho salvato, e credo ancora farvi felici, additandovi una vita beata e tranquilla. Questa casina col podere dipendente è di vostra proprietà. Quì lungi dalle ambiziose cure, e dagl’ inestimabili piaceri campestri, coronati dal reciproco amore, e resi più lieti dalle rimembranze noiose del passato, spero vorrete apprezzare tai beni inestimabili, e nel godimento degli stessi non di sdegnare una rimembranza a chi ve li consigliò. »
CONCLUSIONE
La Contessa di Celano, siccome abbiamo già accennato, non godè il frutto degl’ iniqui tratti usati a suo figlio , essendo passato da quell’ora il Contado con tutte le sue terre e Castella nel Nipote del Papa Antonio Piccolomini, ed ella passando nell’esilio il resto dei suoi giorni.
Ma assai più avventurato fu certamente Ruggero il quale dimenticata la sua antica condizione, e cangiato finanche l’antico suo nome in altro più umile,visse nella beata mediocrità felici giorni con la sposa e coi figli che n’ ebbe, e ne fecero lieta la vecchiezza.
Del misterioso che tanta parte aveva preso nei destini dei principali attori di questa nostra leggenda, ci è ignota la fine, non trovando di esso più fatta alcuna menzione nei vari luoghi, onde attinsi queste notizie.
Prof. T.A.Di Felici Napoli 1862
Traduzione ed aggiustamenti – G. Sociali