La pacificazione del Regno di Napoli, dopo gli aspri anni di lotta
fra svevi e angioini, permise la riorganizzazione della pastorizia
transumante. Carlo I, primo sovrano angioino di Napoli, migliorò
e accrebbe i pascoli demaniali riscuotendone i diritti tramite appositi
ufficiali (baiuli o baglivi). Da un editto del 1334 di Roberto
d’Angiò si può rilevare che tutti i pastori che dagli Abruzzi discendevano
in Puglia erano obbligati a pagare diritti di erbaggio e pascolo
ai regi credenzieri (L. Bianchini, Della storia delle finanze del
Regno di Napoli, II ediz., Palermo, 1839, pp. 120-121). A riordinare
e incentivare la transumanza furono anche le realtà delle abbazie
cistercensi che, tra il X e il XIII secolo, agevolate dalla esenzione di
ogni tipo di imposte, divennero imprenditrici fondiarie e praticarono
nelle terre incolte la grande pastorizia transumante.
E se a riorganizzare le piccole aziende miste fra pastorizia e agricoltura
furono i monaci benedettini, solo nel 1447, con l’istituzione
a Foggia da parte di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, della “Regia
Dogana della mena delle pecore”, i tratturi divennero vie fondamentali
di comunicazione, di scambio di merci e di idee “dettando
la legge degli insediamenti e dei movimenti” [Sabatino Moscati].
Inoltre, tra i compiti della Regia Dogana, c’erano quelli di tutelare i
percorsi tratturali tramite operazioni di controllo e reintegre. La parte
della Puglia idonea a ricevere enormi quantità di animali era il Tavoliere,
il quale venne suddiviso in tante zone di pascolo, “locazioni”,
da dare in affitto ai “locati” (proprietari dei greggi).
I sovrani angioini, in buona sostanza, mantennero l’originaria
impostazione della pastorizia transumante ereditata dal regno normanno,
limitandosi ad aggiornare gli strumenti legislativi alla mutata
struttura sociale e ai mutati interessi politici. In tal senso sono
da intendersi i privilegi concessi dai sovrani angioini a eminenti personalità
del Regno. In questa sede si possono ricordare il privilegio
concesso da Carlo III a Tirello Caracciolo (iustitiarum scolarium
Neapolitani di tutti gli iura herbagiorum terrae Foagiae pro valore
annuo unciarum auri sexaginta et tarenorum decem), e quelli di
Giovanna II ai “chiacchierati” Attendolo Sforza e Ser Gianni Caracciolo
di condurre liberamente i propri animali “grossa et minuta ad
semenda pascua in partibus Apuliae”. (In A. Caruso, Fonti per la storia
della provincia di Salerno. L’archivio della Dohana Menae Pecudum,
in «Rassegna Storica Salernitana», op. cit., p. 207. V. Spola, I
precedenti storici della legislazione della Dogana di Foggia nel Regno di
Napoli, in «Archivio Storico pugliese», a. XXV, 1972, pp. 476-477).
Anche se non fu istituita una specifica amministrazione che riordinasse
la gestione dei pascoli pugliesi, vennero assicurati ai pastori
abruzzesi il passaggio dai passi appenninici al Tavoliere compreso
l’utilizzo dei pascoli. Giovanna II, ultima sovrana angioina di Napoli
istituì una speciale magistratura per la gestione della pastorizia
transumante. Essa, infatti, con una lettera del 18 settembre 1429,
diede ordine a Nucio de Fonte dell’Aquila e Johanni Honufrii Amici
di Sulmona di sovrintendere alla “mena delle pecore” in Puglia,
ossia al passaggio degli animali dagli Appennini abruzzesi ai pascoli
del Tavoliere. Congiuntamente concesse il privilegio, mai ottenuto
dai pastori, di essere giudicati dai funzionari addetti ai pascoli.
Tale
normativa sancì l’inizio della storia della Regia Dogana delle pecore
di Puglia. (A seguito delle note e drammatiche vicende che portarono
alla distruzione della quasi totalità dell’archivio della cancelleria
angioina di Napoli, durante l’ultimo conflitto mondiale, il testo della
lettera di Giovanna II è oggi reperibile solo nella trascrizione fattane
da S. Di Stefano, La ragion Pastorale, vol. I, op. cit., p. 32 e da
N. Vivenzio, Considerazioni sul Tavoliere di Puglia, Napoli, 1796,
pp. 52-58). I sovrani angioini cercarono di intensificare le aziende
agricolo armentizie, creando le cosiddette Masserie Regie. Tale disposizione
riqualificò l’organizzazione del lavoro agricolo. (R. Licinio,
Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla
Dogana delle Pecore, Bari, 1998, pp. 81 e segg.).
Soltanto con la pacificazione del Regno, seguita alla conquista da
parte di Alfonso I d’Aragona, l’istituzione della Dogana delle Pecore
poté essere ripristinata. (I primi risultati si ottennero già durante
la VI indizione, nel periodo 1442-43, il primo anno del regno aragonese
di Napoli, quando il bilancio doganale foggiano raccolse
18.168 ducati). Nel settembre del 1443, durante il Parlamento generale
che Alfonso concesse al Regno, il sovrano aragonese, nonostante
la strenua opposizione dei baroni, ribadì l’obbligo per i proprietari
di ovini transumanti di portare i propri animali nei pascoli
pugliesi, sottomettendoli al pagamento di un diritto fisso in base al
numero di capi posseduti, specificamente definito fida. (A. Ryder,
The Kingdom of Naples under Alfonso the Magnanimous. The making
of a Modern State, Oxford, 1976, pp. 359 e segg. La fida fu stabilita
in otto ducati veneziani da pagarsi per ogni cento pecore per i
proprietari nazionali, mentre i proprietari stranieri furono incentivati
a condurre il bestiame in Puglia, dietro il versamento di sei ducati
veneziani ogni cento pecore. Gli animali “grossi”, ossia le vacche
vennero tassate, invece, per venticinque ducati veneziani ogni
cento capi. AGS, Visitas de Italia, legajo 23-3, Duana de las pecoras
de Pulla, c. 46). (L. Bianchini, Della Storia delle finanze del Regno di
Napoli, op. cit., p. 188.).
Alfonso I cercò di ripristinare il demanio pubblico, già usurpato
dai vari baroni durante i precedenti conflitti. Siccome però gli stessi
baroni avevano sostenuto la causa aragonese, il sovrano non esercitò
nessun atto di forza contro di essi, anzi decretò a seguito di un
accordo che i pascoli usurpati dovevano essere affittati alla Corona.
Tale accordo legittimava i baroni all’uso che ne avevano fatto, ma
contemporaneamente i ducati dovuti dalla Corona agli occupanti
abusivi non venne mai pagata. (Ben si può intendere perché Alfonso
d’Aragona abbia preferito non utilizzare la forza per riprendersi
quelle terre che appartenevano al regio demanio, venendo in urto
con quei baroni che avevano parteggiato con la causa aragonese per
la conquista del regno. Con tale accordo, di fatto, Alfonso pagava il
servizio resogli dai baroni pugliesi. AGS, Visitas de Italia, legajo 23-
3, Duana de las pecoras de Pulla, c. 43).
Per riorganizzare la Dogana Ferdinando I il cattolico, munito di
ben altra forza, reintegrò tutti i terreni demaniali occupati dai privati
tramite le reintegre. In questo periodo venne istituito anche il
corpo dei cavallari, comprendente 24 uomini a cavallo armati con il
compito di tutelare i pastori transumanti.
È l’epoca del consolidamento della civiltà della transumanza, sviluppatasi
tra il XV e il XIX secolo, a cui si deve gran parte del patrimonio
culturale, artistico ed economico dell’Abruzzo e della Marsica.
Una civiltà costruita, anche, non bisogna dimenticarlo, sulla
sofferenza di numerose generazioni di pastori la cui vita è trascorsa
nella prolungata lontananza dalla propria casa e dai propri affetti. Il
sistema tratturale trovò la sua massima espansione grazie dunque
agli Aragonesi, che applicarono nel Regno il modello organizzativo
della Mesa spagnola adeguandolo, con opportune modifiche, alle
peculiarità dell’Italia meridionale.
Così, nel 1447, si iniziò a parlare in maniera compiuta della Dogana
della mena delle pecore, un’istituzione fiscale, con sede a Foggia
(la prima era stata istituita a Lucera), che provvedeva ad affidare
i pascoli e a esigere i tributi. La Dogana aveva un proprio sistema legislativo
con potere autonomo di competenza esclusivo del sistema
tratturale. In pratica tutto ciò che avveniva nei tratturi, o nelle terre
affrancate, era di competenza del giudice della Regia Dogana.
I tratturi erano strade particolari adibite alla transumanza, ricche
di pascoli per le greggi in transito e delimitate, in seguito alle numerose
reintegre, da cippi con la sigla RT (Regio Tratturo) che
divano non solo i confini ma anche la presenza dello Stato. Facevano
parte di file interminabili che sui lati delimitavano le antiche vie
in modo da segnalarne inequivocabilmente i confini rispetto alla
proprietà privata. I cippi hanno forme diverse perché legati a tempi
diversi.
Alfonso I d’Aragona aveva ampliato le sedi tratturali per adeguarle
all’accresciuto numero di greggi transumanti e i terreni necessari
erano stati acquistati per lo più dalle Università (Comuni) e
dai baroni; questi però, periodicamente, approfittando delle guerre
tra i poteri dell’epoca, se ne reimpossessavano. I proprietari armentizi
si lamentarono delle continue usurpazioni con re Ferdinando
che nel 1508 ordinò la restituzione delle terre. Il successo dell’operazione
non durò a lungo, perché usurpazioni e reintegre si alternarono
nei tempi successivi senza tregua. Tra le giustificazioni dei proprietari
figurava quella della scarsa visibilità del confine. Per porre fine
alle tensioni sociali tra pastori e proprietari terrieri frontisti venivano
collocati termini di pietra lungo i confini in modo da rendere
questi ultimi ben visibili e chi avesse rimosso un termine lapideo rischiava
fino alla pena di morte. Ciò nonostante le usurpazioni continuarono,
seguite da reintegre da parte della Dogana.
Giancarlo Sociali