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Francesco Ippoliti e l’amore per la sua terra

Due persone forse diametralmente opposte sotto il profilo politico, l’uno anarchico e medico e l’altro comunista ex contadino, opposte anche dal diverso periodo storico, l’uno (1865- 1 938), l’altro (1922 – 2013), ma uniti da una comune direttrice di vita: combattere l’usurpatore torlonia a favore dei contadini.

Francesco Ippoliti  (1865- 1 938), medico, figlio di piccoli proprietari terrieri, figura di spicco di quel gruppo di anarchici di San Benedetto dei Marsi costituitosi tra Ia fine dell’800 e i primi del ‘900 in seguito al fecondo incontro tra lavoratori del posto e lavoratori che avevano preso contatti con le idee anarchiche nella emigrazione statunitense. Ippoliti fu fondatore e animatore del Circolo “Il Progresso”, il quale, in un primo momento, mise al centro del suo programma la rivendicazione dell’autonomia comunale della frazione di S- Benedetto dal capoluogo Pescina. Il medico anarchico fu in costante contatto con le figure più note dell’anarchismo italiano tra cui Errico Malatesta. Fu collaboratore di numerosi periodici di tendenza anarchica. Perseguitato dal fascismo di cui conobbe spedizioni punitive, carcere e confino, è ricordato in S. Benedetto dei Marsi per la sua generosità professionale (lo chiamavano, per la sua eccessiva magrezza, ( i medechitte,) e per essere stato il “medico dei poveri” in quanto non solo non si faceva pagare le visite, ma si adoperava per procurare medicinali a chi non aveva soldi per acquistarli. Visse sempre povero e negli ultimi anni, fiaccato nel fisico per le privazioni e Ie continue persecuzioni, ebbe conforto ed aiuto solo dal suo compagno Francesco De Rubeis e dalla moglie di questi.

Di lui Ignazio Silone scriveva una cosa attualissima: “per quale destino o virtù o nevrosi, a una certa età si compie la grave scelta, si diventa “ribelli”? Scegliamo o siamo scelti? Donde viene ad alcuni quell’irrefrenabile intolleranza della rassegnazione, quell’insofferenza dell’ingiustizia, anche se colpisce altri? E quell’improvviso rimorso d’assidersi in una tavola imbandita, mentre i vicini di casa non hanno di che sfamarsi? E quella fierezza che rende le persecuzioni preferibili al disprezzo?”

Romolo Liberale di Francesco Ippoliti diceva: Mia madre  narrandoci con la fantasia propria della contadina analfabeta le contro processioni degli anarchici nelle quali il calvario era il quotidiano andare dei contadini nei terreni del Fucino e le quattordici stazioni erano le quattordici disgrazie torloniane: 1) l’alto fitto della terra,2) il cappio del subaffitto3), i debiti col principe, 4)la minaccia dello sfratto,5) le spese per I’avvocato, 6)il sequestro dei prodotti, 7)la rapina nel peso delle bietole, 8)il ritardo nel pagamento delle bietole, 9)le pretese dei guardiani, 10)il divieto di irrigazione, 11)il divieto di transito, 12)ll divieto di costruire ricoveri, 13)le regalie ai fattori, 14)i tassi della Banca del Fucino;  e narrandoci  a modo suo uno dei momenti piu alti delle lotte contadine del primo dopoguerra, quello dell’occupazione delle terre del 1920 – ci cantava strofe del canto scritto da Francesco Ippoliti.

I  particolari aspetti della durezza del lavoro nei campi furono trasformati da Francesco Ippoliti in un canto, presumibilmente composto nei primi anni del secolo scorso. In questo periodo i sovversivi marsicani avevano come unico punto di riferimento il Circolo “Il Progresso” di cui lo stesso medico anarchico fu fondatore ed animatore in S. Benedetto dei Marsi. Il canto dà la dimensione di come sui contadini del Fucino agissero, in modo soffocante, da una parte la mano spietatamente rapace del padrone e dall’altra le mille insidie e le prepotenze dei guardiani e dei fattori, cioè quella struttura disumana su cui si reggeva il potere torloniano, per concluderi con un invito a prendere coscienza della necessità di liberarsi “dal borghese sfruttator” e “dai suoi vili servitor”.

Il canto è composto da undici strofe, ognuna delle quali mette in risalto la durezza del lavoro dei campi e nel contempo la spietatezza del padrone ed i suoi fidi guardiani. Organizzazione quella del torlonia atta a soffocare qualsiasi possibilità di progresso. Riuscendo sempre più ad assoggettare le masse di contadini inermi e poveri.  

IL CANTO

  1. Con la zappa in su le spaIIe con I’aratro sempre avanti  ce ne andiamo tutti quanti Ia dimane a lavorar. Nell’inverno sotto il gelo nell’estate al sol cocente sotto l’acqua che repente col sudor ne va a bagnar’.
  2. Nel cammin  lontan lontano or la Polvere c’imbratta ora il fango ci maltratta senza speme di gioir. Pane duro e Putrid’acqua ci nutrisce e insiem c’infetta il raccolto invan si aspetta la famiglia per nutrir.
  3. Quando vien la messe d’oro che inebria i sensi a noi fitta schiera d’avvoltoi il cammin ne sbarra allor. E quei frutti già maturi tosto il principe ne toglie e con esso il vitto coglie e di vergini gli amor.
  4. Da speculatori ingordi che il principe protegge siamo tosati come gregge senza ombra di pietà”. Dei terreni l’alto fitto ci raddoppiano gli stessi del lavor le nostre messi ci dividono a metà.
  5. Quando s’entra in mezzo ai campi niun ci vede, niun ci sente; vento, pioggia, sol cocente chi ci aiuta ad evitar? Si coltiva, si concima, la sementa si sotterra le intemperie ci fa guerra e il signor sta a gavazzan
  6. Il sudor ne imbratta i panni dura e lorda vien la pelle, ne le madri e le sorelle piu ci arrivano a curar. Cibo il ventre ci rifiuta stanchi sopra un duro stallo aspettiam che canti il gallo annunziant e l’ albeggiar.
  7. Alternando notte e giorno noi alziam al ciel la prece del lavor che ognuno fece frutto aspetta e spighe d’or. Ma il ricolto tanto atteso si presenti magro o grasso il guardiano fa il gradasso per iI ben del suo signor.
  8. Tanto il miser contadino che il piccolo borghese a mezz’anno fan le spese col ricolto d’avvenir. Ma d’arpia feroce ardita via lo strappa il guardiano; questo è l’ordine sovrano: contadino va a morir!
  9. Nei caffè, concerti e balli e nei circoli pomposi con dei balli lussuriosi passa il tempo il reo signor. Con le lacrime e sudor che versiam da mane a sera ei discaccia tutta intera la sua noia e il greve umor.
  10. Lui piacer, gioia, contento, cibo e vino e amore accorto; noi dolor, pene, sconforto duro pane e scarso vin. Trascorrendo così gli anni noi coloni ed operai sempre al ciel mandiamo i lai finche morte giunge alfin.
  11. Che si aspetta? Su fratelli senza classe tutti uniti combattiamo insieme arditi il borghese sfruttator. Ed i vili servitori che fan guardia aI capitale non risparmi il nostro strale dessi sono traditor. Scuotiamo iI gioco indomito ne appar se vili siam uniti in un sol fascio fratelli combattiam.

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